Siracide – Sir 24,1-4.12-16 – Domenica II dopo Natale C
Siracide. La Prima Lettura è tratta dal capitolo 24 del libro del Siracide (vv. 1-4.12-16).
Per la ricchezza del contenuto e per la bellezza della forma, è il capitolo più importante di tutto il libro
ed è uno dei più bei saggi della letteratura sapienziale.
All’interno della letteratura sapienziale della Bibbia ritroviamo un testo simile in Pr 8,1-36,
dove la Sapienza si auto-presenta e rivolge agli uomini un appello perché seguano le sue vie.
Comune a entrambi questi testi è la personificazione della Sapienza:
quest’ultima non è pensata come una realtà astratta o come un oggetto da conquistare,
ma è descritta come un soggetto individuale.
Il capitolo 24 del Siracide è un poema con protagonista la Sapienza, che presenta se stessa.
Nel nostro brano l’auto-presentazione è su due piani: la terra e il cielo,
ossia loda se stessa e si glorifica in mezzo al suo popolo e nell’assemblea dell’Altissimo:
«loda se stessa, si vanta in mezzo al suo popolo. Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca, si glorifica davanti alla sua potenza») (vv. 1-2).
L’auto-presentazione su due piani è tipica di una certa letteratura del medio giudaismo,
che personalizza la Sapienza e la Legge,
che il Siracide identifica come un’unica realtà,
e ne pone la preesistenza presso Dio, prima della creazione del mondo.
La Sapienza può lodare se stessa, perché è uscita «dalla bocca dell’Altissimo».
Ciò significa che l’origine della Sapienza è da Dio e il suo insegnamento viene da Lui.
Essa partecipa della potenza divina.
È una mediatrice privilegiata, che partecipa direttamente di alcune qualità dell’Altissimo.
Le immagini per dire il suo essere vicina a Dio e nello stesso tempo in Israele riprendono quelle dell’Esodo:
«ho ricoperto come nube la terra… il mio trono era su una colonna di nubi» (vv. 3-4. Cf. Es 13,21-22; 14,19-20; 33,9-10, 40,38).
Oltre a questa funzione primordiale di mediazione nella formazione del cosmo,
il Siracide richiama anche un secondo ambito in cui la Sapienza opera: quello storico-salvifico.
Dopo aver percorso il mondo intero, come se andasse cercando un luogo di riposo fra i mortali (vv. 5-7, omessi dal nostro testo),
la Sapienza riceve da Dio l’ordine di stabilirsi in Giacobbe per trasformarsi in proprietà ed eredità d’Israele:
«Il creatore dell’universo mi diede un ordine…: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele» (v. 8).
In una società di carattere fortemente pastorale, l’immagine della tenda era ben comprensibile.
Più che richiamare la dimensione della provvisorietà vissuta da quanti abitano sotto le tende
(situazione che in un ambiente nomade era tutt’altro che temporanea),
l’immagine della tenda esprimeva l’idea del movimento costante.
La tenda è l’abitazione del nomade e del viandante, di colui che si sposta in continuazione.
L’immagine della tenda, come quella della nube, non può non richiamare le vicende dell’esodo (Es 25,8-9; 26,1-37),
dove la tenda del convegno era una sorta di santuario mobile,
colmato della presenza gloriosa di Dio (Es 40)
che aveva accompagnato il cammino d’Israele nel deserto.
Essa era stata il segno visibile della vicinanza provvida di Dio al suo popolo.
Il Dio biblico non è il Dio che se ne sta immobile nei cieli, indifferente alle vicende umane.
Piuttosto, il Dio rivelato nelle Scritture è colui che cammina con gli uomini,
che continua a essere presente nella loro vita,
anche nei passaggi più complessi della loro esistenza,
come era stato il quarantennale cammino di Israele nel deserto,
caratterizzato dalla fame, dalla sete e da tante altre prove che il popolo aveva dovuto sopportare.
Il richiamo alla Sapienza che pone la sua tenda in mezzo a Israele intende rimarcare questa prossimità di Dio al suo popolo.
Questa incarnazione in mezzo agli uomini non intacca minimamente la trascendenza della Sapienza,
creata prima di tutti i secoli, fin dal principio,
e destinata a sussistere per tutta l’eternità (v. 9).
La Sapienza cantata nel Siracide dice ancora di se stessa:
«Ho officiato nella tenda santa davanti a lui, e così mi sono stabilita in Sion» (v. 10).
Ciò significa che in Israele la Sapienza compie il suo ministero nella dimora santa, in Sion.
Essa ha ispirato al popolo eletto una liturgia degna della santità di Dio.
Questa elezione divina e questa presenza della Sapienza hanno fatto di Gerusalemme la città eletta.
Il v. 12, l’ultimo del nostro testo:
«Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore, sua eredità»,
richiama altri due testi dell’Antico Testamento: Dt 32,9 e Zc 2,16.
Davvero con l’autore deuteronomista, ogni israelita può esclamare:
«Infatti, quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7).
La Sapienza conclude il suo discorso invitando gli Israeliti a saziarsi dei suoi frutti (vv. 18-21, omessi dal nostro testo; cf. Mt 11,28).
Se la sola mediazione della Sapienza rende felici gli uomini, quanto più il possesso dei suoi beni che sono più dolci del miele?
Essi non stancano mai: quanto più si posseggono, tanto maggiormente cresce il desiderio.
Riassumendo, il Siracide parla di Sapienza.
Ma di una Sapienza che viene da lontano, era «prima dei secoli, fin da principio»,
viene da Dio, e non dall’uomo.
Che è precedente alla creazione delle cose.
Anzi, che ha reso possibile la creazione di tutto ciò che esiste,
avendo svolto la funzione di «architetto»,
perciò tutto l’universo e in modo particolare tutti gli uomini portano l’impronta della Sapienza divina.
L’uomo, con i suoi dubbi e le sue incertezze, con gli aneliti che lo abitano,
sa che nel mistero della sua vita c’è Dio che mediante la sua Sapienza lo precede, lo conosce, lo ama.
Ma la Sapienza divina,
iscritta nella bellezza e nella complessità della creazione e nella natura dell’uomo,
molte volte rimane difficile da afferrare e da decifrare.
C’è quindi un altro modo più profondo e più ricco con cui la Sapienza di Dio è entrata nella storia:
è la parola che Dio ha donato al suo popolo,
la legge che egli ha fissato per Israele come orientamento di vita.
Se la natura rivela soprattutto la grandezza e la potenza di Dio,
la parola di Dio rivela soprattutto la sua misericordia, la sua santità.
Lo splendore dell’universo suscita nell’uomo stupore e rispetto sacro;
la conoscenza della parola che Dio ha rivolto a Israele suscita fede, riconoscenza e obbedienza.
Difficile, comunque, definire la Sapienza.
Sappiamo che nel Nuovo Testamento tale Sapienza è identificata in Gesù.
L’evangelista Giovanni, quando ci parla del “Verbo”, ha come sottofondo questo testo del Siracide
e lo usa riferendolo alla teologia della Parola e della Sapienza,
nel senso di forza che crea,
rivelazione che illumina,
persona che vivifica.
Giovanni, inoltre, lo applica a Cristo nel rapporto di questi con il Padre.
Gesù, infatti, è la Parola completa e definitiva di Dio,
l’autentica Sapienza resa visibile, la persona inviata da Dio come Figlio unigenito del Padre.
Questa, però, è l’interpretazione che ne diamo noi cristiani
che abbiamo avuto il dono della rivelazione del Nuovo Testamento,
ma per gli Israeliti, ai quali originariamente era destinata la testimonianza del Siracide,
e che non hanno il dono del Nuovo Testamento,
chi era ed è questa Sapienza?
Alcuni autori suggeriscono che è la possibilità di cogliere «qualche cosa» del mistero di Dio e viverne.
Dio, l’universo, la vita.
L’uomo non può pretendere di capire tutto.
Per vivere, soprattutto per dare un significato alla propria esistenza,
è sufficiente ne afferri «qualche cosa»,
raccatti un frammento di verità,
sollevi un minuscolo lembo del mistero.
Questo «qualche cosa», questa scheggia, questo spiraglio, questo brandello, si chiama Sapienza.
Foto: Julius Schnorr von Carolsfeld, Siracide, illustrazione / absi.ch