Sinedrio – At 5,27b-32.40b-41 – Terza Domenica di Pasqua – Anno C
Sinedrio. Introduzione
Sinedrio. Dopo i fatti prodigiosi
e l’irresistibile predicazione della prima comunità cristiana
– prima lettura di domenica scorsa (At 5,12-16) -,
il racconto di Luca prosegue con l’arresto
e la liberazione miracolosa degli Apostoli, (At 5,17-24)
a cui segue un nuovo annuncio nel Tempio (At 5,25).
Gli Apostoli subiscono un secondo arresto
e vengono presentati nel sinedrio (At 5,26-27),
dove il sommo sacerdote imbastisce un processo.
Il contesto
A questo punto si inserisce la prima lettura di oggi.
Prima di esaminare il testo
è tuttavia opportuno analizzare il contesto
in cui avviene sia l’arresto, sia l’interrogatorio.
È sempre più chiaro che i capi del giudaismo sperimentano
tutta la loro impotenza di fronte alla forza vitale
che si sprigiona dalla giovane comunità cristiana.
Ciò è posto sotto i loro occhi con un’evidenza sconcertante.
Nella precedente azione giudiziaria contro Pietro e Giovanni
l’irrefutabile argomento dello storpio risanato
aveva impedito ai giudici di mettere in atto
le reali intenzioni dei loro cuori perversi e invidiosi.
Ora quella prigione vuota sta a dichiarare loro apertamente
come sia difficile contrastare la vitalità irrefrenabile
di un movimento suscitato dallo Spirito di Dio.
Ed ecco per colmo sentirsi dire
che gli stessi uomini da loro fatti cacciare in una pubblica prigione,
si trovano nel tempio a proclamare a viso aperto
l’insegnamento per cui si voleva processarli.
La cosa dovette far l’effetto
di un’intollerabile sfida alla loro autorità.
Ma ciò che più li indispettisce
è questo popolo entusiasticamente accalcato attorno agli Apostoli
e intento ad ascoltare la loro predicazione.
Il prefetto del tempio e la sua gente dovettero ben presto accorgersi
quanto fosse problematica l’autorità del sinedrio e della sua polizia
di fronte alla giovane Chiesa, allorché si videro costretti
ad accompagnare nell’aula del sinedrio gli Apostoli
senza far mostra di adoperare la violenza:
«… li condusse via, ma senza violenza,
per timore di essere lapidati dal popolo» (At 5,26).
Analogia con l’arresto di Gesù
In questo modo, il racconto istituisce una parallelismo
tra l’arresto di Gesù e quello degli Apostoli.
Anche Gesù fu arrestato di notte,
poiché durante il suo insegnamento nel tempio
«tutto il popolo pendeva dalle sue labbra nell’ascoltarlo» (Lc 19,47-48)
e dunque i capi dei sacerdoti e gli scribi temettero di agire apertamente.
Se l’interrogatorio subito da Gesù
verteva sulla sua identità di Cristo e Figlio di Dio,
qui gli Apostoli sono accusati
a causa del loro insegnamento «in questo nome»
e di voler «far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo».
Commento
«Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome?» (v. 28).
Il «nome di Gesù», motivo che apre e chiude il nostro testo,
non viene mai pronunciato dal sommo sacerdote
e si trova invece al centro della proclamazione di Pietro.
Per il sommo sacerdote Gesù è solamente un uomo
il cui sangue è stato versato
e della cui morte non vuole, ipocritamente,
essere ritenuto responsabile.
Disprezzo? Paura?
Si potrebbe pensare a quest’ultima,
perché una strana preoccupazione si rileva nelle sue parole,
mentre parla del «sangue di quest’uomo».
Vuol dire il sangue di Gesù:
quello stesso che a suo tempo il popolo traviato,
mentre Gesù veniva condannato da Pilato,
aveva richiamato su se stesso, gridando nel suo cieco furore:
«Il sangue di lui ricada su di noi e sui nostri figli» (Mt 27,25).
Luca, a dire il vero, nel Vangelo che porta il suo nome, tralascia queste parole;
ma le conosce, e le trasporta, per così dire, a questo punto,
ponendole in qualche modo sulla bocca del sommo sacerdote.
«Rispose allora Pietro insieme agli Apostoli:
“Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (v. 29)
La risposta degli Apostoli al rimprovero del sommo sacerdote
non è il linguaggio degli accusati; essa si tramuterà
in una coraggiosa professione di fede contro gli stessi accusatori.
Si osservi la sensibile differenza rispetto al contegno
tenuto durante la prima udienza davanti al tribunale.
Neanche allora si notarono affatto sintomi di timorosa soggezione;
ma vi possiamo scorgere un certo riguardo
di fronte a quel supremo tribunale del popolo giudaico.
Questa volta essi non sottopongono al giudizio del sinedrio
il problema se sia giusto obbedire agli uomini piuttosto che a Dio,
No, chiara e senza titubanza risuona questa loro precisa affermazione:
«Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini».
Non è solo Pietro a parlare così,
anche se naturalmente è egli l’oratore.
Nel nostro testo è detto intenzionalmente:
“Pietro e gli Apostoli risposero”.
È la Chiesa intera a esprimersi in questa frase.
Si consideri tutto il peso che essa assume
nella situazione in cui viene pronunciata.
Ma chi dà agli Apostoli il diritto, se vogliamo dire così,
di considerare la disposizione, l’ordine del sinedrio
come un comandamento umano, e di rigettarlo?
Chi dà loro la certezza per poter decidere
in che cosa di deve ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini?
Sono questioni molto serie,
che non permettono soluzione facili,
con argomenti esterni e con una visione umana delle cose.
Due diversi ordini di poteri vengono qui a conflitto:
il primo, dell’autorità visibile e terrena;
e il secondo, dello Spirito Santo,
Una situazione veramente tragica si profila all’orizzonte.
Essa tornerà fatalmente a ripetersi dovunque e ogni qual volta
la vivente chiamata di Dio e la testimonianza del suo Spirito
s’imbatteranno nella prepotenza di una tradizione fossilizzata e formalista,
la quale eriga davanti agli uomini una barriera
per impedire che ascoltino e intendano un appello tanto generoso.
«Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù» (v. 30).
La formulazione di questa frase è stata studiata in ogni suo parola.
«Il Dio dei nostri padri», esclama Pietro,
conscio dell’importanza di quanto sta dicendo.
Egli non intende parlare come un forestiero,
come uno che si presenta estraneo al proprio popolo.
No, il suo Dio è anche il Dio di questi uomini del sinedrio,
ed è perciò il Dio dei loro padri, il Dio d’Israele,
il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe,
come egli lo aveva già chiamato nel suo discorso
dopo la guarigione dello storpio nato (At 3,13).
«Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù»:
è una specie di proclama che risuona in faccia ai membri del sinedrio,
i quali sono costretti ad ascoltarlo come la convinzione
maturata da uomini ben certi della verità che affermano.
«… che voi avete ucciso appendendolo ad una croce» (v. 30)
Perché Pietro dice ciò?
Gl’importa dunque smascherare i membri del sinedrio,
incolpandoli apertamente dell’uccisione perpetrata?
Certamente no. Ciò che più gl’importa è di ripetere la sua testimonianza.
Egli vuole attestare la maestà a cui il Dio d’Israele, il Dio dei padri,
ha innalzato questo Gesù facendolo sedere alla sua destra.
Dalle numerose affermazioni fin qui contenute negli Atti degli Apostoli,
le quali trovano conferma in tutta la Scrittura neotestamentaria,
sappiamo che cosa pensassero gli Apostoli della croce
e della morte di Gesù, e come ne parlassero con venerazione.
Ma al di là dei suoi dolori e della sua morte,
essi considerano con trasporto ancora maggiore
la gloria che era venuta ad aureolare il Cristo
con la sua risurrezione e la elevazione alla destra di Dio.
«… come capo e salvatore, per dare a Israele
conversione e perdono dei peccati» (v. 31).
Pietro addita Gesù di Nazaret come “capo e salvatore”,
attestando così di Lui la dignità suprema, quella che,
nel linguaggio dell’Antico Testamento,
si addice soltanto alla Divinità.
Questo «capo e salvatore» è stato da Dio «elevato»
per portare a Israele la salvezza tanto attesa fin del tempo dei profeti,
una salvezza che comporta peraltro la conversione
allo scopo di ottenere il perdono dei peccati.
Ne consegue che nelle parole di Pietro al sinedrio
non è tanto l’accusa e il rimprovero che noi dobbiamo scorgere,
quanto piuttosto un ammonimento e una promessa.
Dio dona il suo Spirito a tutti coloro che gli ubbidiscono.
“Ubbidire” in questo caso però significata accettare l’offerta
che Dio ci fa attraverso l’azione redentrice di Gesù,
avere fede in lui e abbandonarsi alle sue mani.
«E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo» (v. 32).
Questa fede poi è assicurata da una duplice testimonianza.
La testimonianza degli Apostoli e la testimonianza dello Spirito Santo.
In pochi tratti, Pietro riassume l’opera salvifica di Dio a nostro favore.
Tre volte troviamo il nome di Dio nel nostro testo:
«Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù…»
Ancora: «Dio lo ha elevato alla sua destra come capo e salvatore…»
Infine: «Dio ha dato lo Spirito Santo a coloro che gli obbediscono».
Su questa sicura coscienza si fonda la frase con cui il discorso è incominciato:
«Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini».
Giustificazione e appello si riscontrano dunque nelle parole degli Apostoli:
la giustificazione del messaggio che essi annunciano nel nome di Gesù,
e l’appello ai membri del sinedrio, alla cui chiarezza di vedute e prontezza di accettazione
è decisamente legata la salvezza di tutto il popolo.
Come viene accolto tale appello?
Il nostro testo, saltando i vv. 33-39, che ricordano l’ostinazione del sinedrio
«Ciò udito, si rodevano di rabbia e si proponevano di metterli a morte» (v. 33),
e l’intervento di Gamaliele in favore degli Apostoli (vv. 34-39)
ricorda che gli Apostoli furono flagellati
e diffidati dal parlare nel nome di Gesù (v. 40).
Cosa può significare però questa flagellazione
che si aggiunge al pur felice risultato
d’un processo così gravido di pericoli?
Il sinedrio decide d’infliggere tale pena
evidentemente per salvare la faccia
e ribadire la propria suprema autorità.
Essa è chiaramente inflitta quale punizione
per la disobbedienza al divieto di predicare il nome di Gesù.
«Ed essi se ne andarono via… lieti» (v. 41).
Gli Apostoli abbandonano il sinedrio lieti.
È la letizia di uomini animati da una fede in Gesù
tanto incrollabile, da sentirsi felici
per aver avuto parte con Lui all’umiliazione e all’ignominia.
Il loro sguardo va oltre quell’umiliazione,
per fissarsi in Colui che splende nella gloria.
La fede nella risurrezione e nella glorificazione del Signore
è qualcosa di più di un’intuizione della loro anima:
si tratta di una forza vitale che scaturisce dalla speranza
che fiorisce indistruttibile nei loro cuori.
Foto: Visione di Trento sud dalla Casa di Riposo
”Civica San Bartolameo” / Foto personale