Secondo Isaia
Nella I Lettura ci è stato proposto un brano di Isaia. Questo brano, però, con tutta probabilità, non è opera del grande profeta vissuto all’epoca di Acaz e Ezechiele (seconda metà del VIII secolo a.C.), ma va attribuito a un profeta anonimo, chiamato dagli studiosi “Secondo Isaia”, e vissuto nell’epoca dell’esilio babilonese (VI secolo a.C.), quindi in un’epoca più tarda. L’opera di questo profeta anonimo è entrata nel grosso volume di Isaia.
Questo profeta, chiamiamolo allora Secondo Isaia, è stato il cantore del ritorno di Israele dalla schiavitù babilonese in seguito all’editto di Ciro del 538 a.C.
Questo rimpatrio per la ricostruzione del focolare nazionale nella terra dei padri, abbandonata nel 586 a.C. con la distruzione di Gerusalemme da parte delle armate babilonesi, è celebrato dal Secondo Isaia con una doppia fila di immagini antitetiche.
Da un lato si incontrano simboli tratti dalla natura: all’aridità del deserto, alla steppa riarsa, alla terra bruciata si oppongono le acque, i torrenti, le paludi, le sorgenti gorgoglianti.
D’altro canto (e siamo alla I Lettura di oggi) prendono vita immagini corporali: al fisico malato dei ciechi, dei sordi, degli zoppi, dei muti si oppone l’organismo risanato, dotato ormai di occhi penetranti, di orecchi sensibilissimi, di gambe saltellanti, di labbra che esplodono in canti di gioia. La via verso la libertà è fresca e luminosa, è come un viaggio in un giardino paradisiaco; la rinascita del popolo è come la risurrezione di un corpo malato e moribondo.
Riflettendo su questo brano, attraverso la parola del Secondo Isaia si contempla un mondo totalmente rinnovato. Sembra di sognare ad occhi aperti e di assistere al miracolo di una vita che rifiorisce ritrovando la freschezza e il vigore delle origini.
Ma il confronto con la realtà è troppo stridente per non dover concludere: «È una bella utopia! Affascinante, ma irrealizzabile. Si è letto: “Si schiuderanno gli orecchi dei sordi”. Ma quando avverrà questo?».
Attorno a noi, infatti, ci sono tante persone che vivono chiuse in se stesse, segregate nella loro solitudine, incapaci di comunicare attraverso l’ascolto e la parola. È una pena immensa quando succede che perfino in una famiglia ci sia qualcuno non disponibile al dialogo perché ostinato nel voler rimanere chiuso in un mutismo impenetrabile.
Di chi è la colpa? A volte è difficile definire la responsabilità.
Ma ci sono casi in cui, prima di dare la colpa agli altri, è bene riconoscere che possiamo essere noi i colpevoli. Ci sono persone che condanniamo al silenzio con il nostro orgoglio, con il senso di superiorità che vogliamo sempre esprimere, con l’indifferenza che manifestiamo nei loro confronti, come se non esistessero per noi.
Come i primi cristiani hanno compreso l’utopia del Secondo Isaia? Ci aiuta il Vangelo di oggi: Mc 7,31-37.
Se, come sembra, Marco fa volutamente allusione al nostro passo del Secondo Isaia, se ne deve concludere che un primo intento dell’evangelista è presentare Gesù come colui che porta la salvezza definitiva promessa da Dio. È ciò che è riconosciuto dagli astanti alla conclusione del Vangelo odierno: se «fa udire i sordi e fa parlare i muti» (Mc 7,37) significa che in lui Dio viene a salvare (Secondo Isaia: «Egli viene a salvarvi»).
Il sordomuto del Vangelo rappresenta tutti coloro che, o per colpa loro o per colpa degli altri, vivono in una condizione di isolamento tale che assomiglia a una condizione di morte. Per rompere questo isolamento c’è la bellezza e la forza creativa della parola di Gesù: «Effatà», cioè: “Apriti”! Apriti e vivi pienamente riconciliato con la vita.
Ecco come l’utopia del Secondo Isaia (ma sarebbe meglio dire profezia) può attecchire nel nostro tempo. Ecco come l’oggi di Dio («Ecco il vostro Dio», dice il Secondo Isaia) entra nel nostro tempo.
Questa profezia è affidata ora alle nostre mani e, prima ancora, al nostro cuore. Per essere capaci di dire a un altro «Effatà», dobbiamo anzitutto essere capaci di ascoltare. Tutti oggi vorrebbero parlare ed essere ascoltati, ma chi è disposto a tacere e ad ascoltare?
Una volta vinta la propria sordità, si può essere pronti a comunicare all’altro l’Effatà che lo salva.
Bisognerebbe saper dire questa parola a coloro che vengono da esperienze di grande avvilimento morale e si sentono emarginati dalla loro stessa coscienza: “Apriti, non c’è alcun nodo che non possa essere sciolto. Il tuo cuore ti condanna. Ma Dio è più grande del tuo cuore!”.
E a quelli che, poveri di cultura, si sentono come a disagio nelle nostre assemblee e soffrono di una condizione di inferiorità: “Apriti e parla, perché c’è una sapienza che Dio non ha riservato ai dottori di questo mondo, ma a quelli che hanno la semplicità del cuore”.
E a quelli che soffrono perché credono di non aver fede e si chiudono nei loro dubbi e nei loro tormenti: “Apriti. Ascolta la parola di fiducia che viene da Dio e canta la tua lode, come puoi, sapendo che tutto conta, anche il semplice desiderio di credere.
Ma per dire questa parola occorre, come ha fatto Gesù, avvicinarsi alle persone con gesti di solidarietà, di partecipazione, di comprensione. Se fosse possibile, di identificazione.
Occorre che la comunicazione, prima che attraverso la parola, passi da cuore a cuore.
Soltanto l’amore, infatti, può realizzare la profezia del Secondo Isaia e ripetere il miracolo di Gesù.
Foto: Effatà: Apriti / youtube.com