Qoèlet – Qo 1,2; 2,21-23 – XVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C
Premessa
Qoèlet – La prima lettura di oggi
è tratta dal libro del Qoèlet.
Qoèlet (secondo l’espressione ebraica)
o Ecclesiaste (secondo la traduzione greca)
non è certo tra gli autori dell’Antico Testamento
più letti e più amati,
anche perché danneggiato
da un affrettato e ingeneroso giudizio,
quello cioè di essere uno scettico e un pessimista.
Una conoscenza diretta del nostro autore, però,
non fa scivolare del tutto sulla china del dubbio.
Se egli mette in evidenza i segni dell’assurdo
ad ogni passo nella vita e nella società,
non è a causa di un morboso compiacimento
o al fine di farne un dramma.
Verosimilmente invece egli vuol stimolarci
ad andare più a fondo.
Questo caustico opuscoletto
è stato presentato con la firma di Salomone;
patrocinio indubbiamente fittizio,
dato che dal vocabolario, dallo stile e dal contenuto
appare chiaro che risale appena alla metà del III sec. a.C.,
quando la Palestina, sottomessa ai Tolomei,
comincia a sentire l’influsso ellenistico.
Non si può tuttavia non restare stupiti di trovare
un tale scritto nella Bibbia; è infatti un’eccezione.
Certo non è ancora così tragico da figurare
tra i precursori di un cupo esistenzialismo;
ma è un fatto che critica la sapienza corrente
e non parla mai
dei grandi eventi della storia della salvezza.
Di fatto il Qoèlet non propone un insegnamento
e neppure un pensiero.
Diremmo piuttosto che ci fa riflettere
prima di tutto sulla condizione dell’uomo,
sulle interpretazioni che ne vengono proposte,
e sulla realtà imposta dai fatti.
Egli guida a riflettere
nel mezzo degli avvenimenti senza ribellarsi.
«Possedere» «trovare» «conoscere»:
se è tutto questo che assilla l’uomo,
penserà la vita a deluderlo,
tutto resterà problematico.
Il segreto della sapienza
è di accogliere i doni di Dio nel quotidiano,
invece di fare grandi progetti per la vita
o, il che non è affatto meglio,
di teorizzare sul senso della vita.
Per la teologia della Bibbia
questo è un libro di transizione.
Le vecchie idee sulla ricompensa terrena
sia del popolo eletto come anche di ciascun giusto
sono state troppo spesso contraddette nella realtà.
Il Qoèlet non conosce ancora la ricompensa eterna.
È un momento angoscioso di passaggio
tra la religione di ieri e la fede di domani.
Qoèlet insegna soltanto
a non considerare il successo terreno
come ultimo destino umano:
non è quella la ricompensa di Dio.
Era necessaria questa critica dei valori tradizionali
perché un giorno gli uomini fossero pronti
ad ascoltare colui che solleverà scandalo
dicendo: «Beati i poveri, beati i mansueti…»,
e che proporrà come ovvia una vita
che non ha termine con la rottura dei legami terreni.
Qoèlet, infine, rimane per noi di attualità:
nella crisi di tutti i valori
che caratterizza il momento in cui viviamo
egli suggerisce di puntare seriamente su Dio solo,
tracciando le frontiere fra l’uomo
e le sue ridicole pretese al profitto,
al potere, alla gloria.
«Vanità delle vanità… tutto è vanità»
Questa lunga premessa è servita
come chiave di accesso alla breve lettura,
composta da un versetto famoso (1,2)
e da un pensiero che illustra bene
la posizione di Qoèlet (2,21-23).
Apre il brano il versetto più famoso e più citato
«Vanità delle vanità… tutto è vanità».
«Vanità delle vanità» è in ebraico una specie di superlativo
del vocabolo habel/hebel, che, in senso proprio,
indica “soffio, respiro, alito”; in senso traslato
(uso abituale di Qoèlet), è reso con “vanità”
ed esprime una realtà inconsistente, senza futuro
(è il sostantivo da cui viene il nome Abele: costui è fratello
senza consistenza, perché sarà presto assassinato).
È il termine chiave, il ritornello di Qoèlet
perché vi ritorna ben 38 volte,
tante quanto in tutto il resto della Bibbia.
«Tutto è vanità» nel senso
che alla prova del tempo,
nulla resiste,
nulla ha valore assoluto
Qoèlet non intende disprezzare le cose,
ma solo privarle
della loro parvenza di indispensabilità.
Qoèlet – Tanta fatica, ma per chi?
A documentazione del suo pensiero
Qoèlet propone anche il caso
di lavoro ben fatto e ben riuscito,
il cui frutto va a vantaggio di qualcuno
che non vi ha preso parte.
È come dire che uno fa e un altro gode.
Quale vantaggio viene allora al lavoratore,
se non può godere del frutto della sua fatica?
La domanda getta ombra di dubbio,
se non di discredito, sull’agire umano.
Con un velo di malinconia constata che
«Tutti i suoi giorni non sono che dolori
e fastidi penosi» (v. 23).
Che senso ha, allora, la fatica necessaria
al fine di tirare avanti ogni giorno?
«Anche questa è vanità».
Qui termina il testo proposto.
Per correttezza e completezza,
va ricordato che Qoèlet propone dei passi
che potremmo chiamare le sue beatitudini,
nei quali osserva e celebra valori positivi.
Il primo viene subito dopo il nostro testo (cfr. v. 24)
e ne seguiranno altri sei (cfr. 3,12-13.22; 5,17; 8,15;
9,7-9; 11,9-12,1) prima della conclusione di 12,13,
vertice teologico di tutto il Qoèlet:
«Ecco la conclusione di tutto quello
che c’era da dire e da ascoltare:
temi Dio e osserva i suoi comandamenti,
perché questo per l’uomo è tutto» (12,13).
Qoèlet – Conclusione
Che fare, allora?
Smettere di lavorare,
non impegnarsi più?
Mangiare, bere, divertirsi
e non pensare ad altro?
Qoèlet consiglia un sano godimento
di quanto la vita offre.
Lascia però sospesi
gli interrogativi fondamentali
sul senso della vita.
La risposta non si trova nel suo libro,
ma nel Vangelo.
Sarà Gesù a spalancare nuovi orizzonti,
a insegnare a non agitarsi per le vanità,
per non inseguire il vento.
Foto: Gustave Doré, Salomone, 1866,
illustrazione per il libro dei Proverbi /
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