Primizie

Primizie – Dt 26,4-10 – I Domenica di Quaresima – C

Primizie – Il contesto

«Il meglio delle primizie del tuo suolo
lo porterai alla casa del tuo Dio» (Es 23,19).
Questa era la disposizione della Torah
e in primavera, all’inizio della mietitura dell’orzo,
il primo covone veniva portato nel tempio e offerto al Signore (Es 23,16).

Dopo sette settimane, a conclusione della raccolta del grano,
si celebrava la festa di Pentecoste e anche in questa occasione
erano presentate a Dio le primizie (Es 34,22),
non di tutti i frutti del campo, ma solo di quelle sette specie
che sono il simbolo della terra d’Israele: il grano, l’orzo, l’uva,
i fichi, i melograni, le olive e di datteri (Dt 8,8).

Con questo rito si proclamava solennemente
che Dio era il padrone della terra e di quanto essa produce.

Oltre a questa offerta pubblica ce n’era un’altra, privata,
celebrata da ogni singolo gruppo familiare.
È a questa che fa riferimento la prima lettura di oggi.

Quando i frutti cominciavano a spuntare sugli alberi,
il contadino segnava con un nastro i primi e,
non appena erano maturi, li poneva in un cesto.

Poi, accompagnato da tutta la sua famiglia, li portava al tempio.
Nel consegnarli al ministro di Dio, diceva:
riconosco che questi frutti non mi appartengono,
sono un dono del Signore,
sono cresciuti sulla terra che egli mi ha dato (Dt 26,1-3).

È a questo punto che inizia la nostra lettura:
il sacerdote prendeva il cesto
e lo deponeva davanti all’altare del Signore,
poi invitava il contadino a fare la sua professione di fede.

Lo aiutava recitando ad alta voce, in ebraico,
ogni versetto del Credo ebraico e il contadino ripeteva,
parola per parola, ciò che udiva.

Il testo

Il nostro brano riferisce il cerimoniale dell’offerta delle primizie,
con precise indicazioni sulle azioni da compiere
e sulle parole da pronunciare.

All’azione liturgica del sacerdote (v. 4)
segue la risposta del fedele, composta
da una solenne professione di fede (vv. 5-9)
e dall’offerta dei prodotti (v. 10).

Commento del testo

Il brano del Dt è un testo liturgico.
«Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani
e la deporrà davanti all’altare del Signore» (v. 4).

Non doveva essere un’offerta particolarmente consistente.
Una piccola porzione del raccolto, che un paniere bastava a contenere.
Ciò che importa non è la quantità, ma il significato.

Si tratta di un gesto «eucaristico».
Riconoscimento che tutto viene da Yahweh,
e tutto deve ritornare a lui nella lode
e nell’azione di grazie (eucaristia).

Il raccolto dei campi,
prima di essere frutto del lavoro dell’uomo,
è dono, benedizione di Dio.
L’offerta cultuale, quindi,
non è tanto un’iniziativa umana,
ma risposta all’azione benefica di Dio.

In questo contesto viene inserito lo stupendo brano
che prende il nome di «Credo storico di Israele» (vv. 5-9).
In effetti l’espressione «tuo Dio…»
che compare due volte sia all’inizio sia alla fine (vv. 4 e 10),
incornicia il testo del “Credo israelita”
e gli dà un senso: quello appunto di una professione di fede.

È opportuno sottolineare un dato particolare della religione giudaica.
Il credente non trova Dio al termine di una elucubrazione filosofica,
ma nella trama di una storia che Dio «fa» insieme al suo popolo.
Il catechismo di Israele,
più che contenere una serie di formule astratte,
è un racconto delle azioni di Dio.

L’ebreo non si domanda : «Chi è Dio?»,
ma: «Che cosa è stato Dio per noi?».
Non gli interessa tanto ciò che Yahweh è in sé,
quanto piuttosto ciò che Yahweh compie a favore del suo popolo.

Ossia, la fede di Israele nasce dall’esperienza di Dio,
documentabile storicamente, intesa come presenza efficace,
operante attraverso gli avvenimenti. Non «Colui che è»,
ma «Colui che c’è», ossia è qui, agisce, interviene.
Non l’Essere-in-sé, ma l’Essere-per.

In altre parole, alcuni di noi cristiani pensano che il Credo
sia una specie di elenco di verità astratte che è necessario ammettere
se si vuole essere considerati credenti.

Se chiedessimo invece a un ebreo qual è la sua fede,
egli ci risponderebbe con un racconto. Comincerebbe così:
«Mio padre, Giacobbe, era un arameo errante»
e continuerebbe narrando la storia del suo popolo
e le gesta compiute dal Signore in suo favore.

Nel frammento del “Credo israelita” che leggiamo oggi,
si mettono in evidenza tre «azioni» (gesta) di Yahweh:

L’elezione, a cominciare dai Patriarchi.
Una scelta gratuita che cade su una realtà miserabile:
«Mio padre era un arameo errante…».

La liberazione. «Gli Egiziani ci maltrattarono,
ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù.
Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri,
e il Signore ascoltò la nostra voce…
Ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e braccio teso».

Il dono della terra: «Ci condusse in questo luogo
e ci diede questo paese dove scorre latte e miele».

In questa triplice azione di Yahweh
è contenuta, in sintesi, la storia della salvezza.

In questa storia si colgono facilmente due contrasti.

Il primo contrasto sta fra la situazione da cui ha avuto origine Israele
(… da un «arameo errante», senza terra, senza sicurezza, senza patria)
e la realtà attuale: nel tempio c’è un agricoltore benestante
che, con la sua famiglia, celebra sereno la festa, offre i frutti dei suoi campi.
L’indigenza si è mutata in prosperità.

Il secondo contrasto è fra la condizione di schiavitù e quella della libertà.
In terra straniera Israele è stato oppresso, maltrattato,
umiliato, ora vive libero e felice.

Come conclusione, ecco il gesto eucaristico:
«Ora… io presento le primizie dei frutti del suolo
che tu, Signore, mi hai dato» (v. 10).

Con la cerimonia delle primizie
e con la proclamazione della professione della loro fede,
gli israeliti riconoscono che Dio è stato fedele alle sue promesse
e che la loro vita dipende completamente dalla sua generosità.
Tutto ciò che hanno è dono suo.

Una curiosità

Che fine facevano le primizie portate al tempio dal contadino?
Forse la risposta che ci viene in mente è questa:
venivano date ai ministri che avevano officiato il rito.

Peccato che la nostra lettura si fermi al v. 10
e non riporti i versetti seguenti.
I frutti non venivano bruciati sull’altare né erano dati ai sacerdoti.
Erano consegnati ai «rappresentanti di Dio», i poveri. Erano offerti
ai leviti, al forestieri, agli orfani e alle vedove (Dt 26,11-13).

La festa poteva considerarsi ben riuscita e gradita a Dio
solo dopo che i bisognosi e gli indigenti era stati saziati.

Prima di lasciare il tempio dove aveva offerto le primizie,
il contadino era invitato a proclamare
davanti al Signore suo Dio anche questa formula:
«Ho tolto dalla mia casa ciò che era consacrato
e l’ho dato al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova,
secondo quanto mi hai ordinato» (Dt 26,13).

Cosa centra questo brano con la Quaresima?

Questo brano è stato scelto come apertura della Quaresima
perché, a tutti coloro che chiama a conversione,
Dio mostra le trasformazioni prodigiose che opera in chi si fida di lui.

Non è stato facile per Israele credere nel Signore.
Più volte è stato tentato di rimpiangere la situazione di schiavitù
in cui era vissuto in Egitto. Dicevano i rabbini:
«Non fu solo necessario trarre gli ebrei dall’Egitto;
fu anche necessario trarre l’Egitto dal cuore degli ebrei».

Tuttavia, coloro che si sono fidati del Signore
hanno verificato e possono testimoniare
che quando egli invita a uscire da una terra
è sempre per introdurre in un altro luogo migliore.

Foto: Michelangelo Merisi da Caravaggio,
Fanciullo con un cesto di frutta, olio su tela (1953-1954),
Galleria Borghese di Roma / it.wikipedia.org

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