Parole. Ottava stazione. I consolatori molesti
Via Crucis del malato – Cammino di speranza
Parole. Lo confesso.
C’è qualcosa che temo, eccome, più del dolore fisico,
del responso degli esami clinici,
delle terapie cui vengo sottoposto:
le parole.
E queste arrivano ovviamente inesorabili.
Sì, ogni giorno constato come le parole facciano male,
siano sassi appuntiti che si conficcano nella carne
e fanno urlare silenziosamente,
o lasciano senza fiato.
Quotidianamente vengo sottoposto al bombardamento delle parole,
alla loro implacabile sassaiola.
Si tratta anzitutto di parole di consolazione:
false, stonate, vuote, irritanti.
Ma anche di parole di circostanza:
ipocrite, fastidiose,
ripetitive nella loro meccanicità,
appartenenti a un copione fisso,
a un rituale scontato.
Infine di parole di speranza,
ma che sono invece la caricatura, la parodia della speranza,
e così finiscono per mortificarla,
o addirittura spegnerla.
Ma quelle che temo soprattutto sono le prediche sulla sofferenza.
E purtroppo queste non mi vengono risparmiate
da persone devote
che fanno la loro puntuale apparizione nel momento sbagliato,
non trovano mai il tono giusto,
e il cui linguaggio si rivela semplicemente insopportabile.
Quando compaiono nella mia stanza,
con quel sorriso melenso e quell’aria compunta,
non posso fare a meno di pensare agli amici di Giobbe
i quali, dopo essere rimasti in silenzio per ben sette giorni,
alla fine lo sommergono con un diluvio di discorsi,
rimproveri, esortazioni, lezioni teologiche.
Questi purtroppo, parlano fin dal primo momento,
Vengono solo per parlare, per istruirmi.
Le loro chiacchiere devote sono tanto più inaccettabili
in quanto scaturiscono da individui che, sovente,
stanno bene in maniera spudorata,
e quindi lasciano cadere i loro sermoni dall’alto del loro esser sani.
Mi fanno veramente pesare la loro superiorità,
la superiorità di chi sta dall’altra parte,
non è toccato dall’infermità,
non è neppure sfiorato personalmente dalla miseria.
E perciò la loro compassione mi umilia, mi avvilisce.
Danno risposte a ripetizione,
senza neppure aver cercato di capire le mie domande,
i miei problemi.
Concordo totalmente con le parole di Giobbe:
«Ne ho udite già molte di simili cose!
Siete tutti consolatori molesti.
Non avranno termine le parole campate in aria?…
Anch’io sarei capace di parlare come voi,
se voi foste al mio posto:
vi affogherei con parole…» (Gb 16,2-4).
Come inoltre non indovinano le parole giuste,
così non indovinano mai la posizione giusta.
O troppo distanti,
fino ad apparire estranei,
fondamentalmente indifferenti.
O troppo vicini,
con la loro indiscrezione e invadenza,
fino a soffocare.
Non sanno, in ogni caso, mantenersi su quella soglia inviolabile
che dice anzitutto partecipazione
ma anche rispetto, delicatezza, comunione silenziosa.
Talvolta mi vien voglia di buttar loro in faccia:
«Tacete,
rispettate il mio dolore,
non maltrattate il mistero.
Nessuno
– tanto meno l’Interessato –
vi ha autorizzati a farvi avvocati d’ufficio di Dio,
a difendere la sua causa».
Pure a me,
come a Giobbe,
appare intollerabile il silenzio di Dio.
Ma, dopo aver ascoltato certi discorsi pii e untuosi,
penso sia più facile sopportare il silenzio ostinato di Dio
che le facili parole degli amici di Dio,
le ciarle di coloro che presumono parlare a nome di Dio.
Indubbiamente l’accettazione del mistero,
dello scandalo del male,
risulta più pacificante di certe spiegazioni.
Il mistero è luce crocifiggente,
oscurità luminosa.
Le chiacchiere invece aumentano la confusione.
Pretendono spazzar via i nuvoloni neri del dubbio,
degli interrogativi, delle questioni laceranti,
e finiscono,
con il loro gelidi moralismi e schematismi,
per dissipare la speranza.
Preghiera
Gesù,
sperimento con sempre maggior evidenza
che esiste una compassione che viene dall’alto,
proprio come certa elemosina dei ricchi,
certa carità dei benestanti,
che invece sottolinea la distanza, la diversità,
e aggrava la situazione, non crea un rapporto.
Tu, al contrario,
sei un Dio di pietà,compassionevole.
Ma la Tua compassione nei miei confronti
l’accetto con gratitudine,
e mi dà sollievo,
perché – passami l’eresia –
viene dal basso, a livello di croce comune,
da una segreta complicità di miseria.
Grazie, Signore,
perché ti accosti al mio dolore
non con un testo teologico che offre tutte le spiegazioni,
ma con una croce assurda, scandalosa,
impossibile più della mia.
E siccome porti quella croce spropositata,
non Ti resta più fiato per parlare.
Io, però, mi accontento
di avvertire i battiti del Tuo cuore in tumulto,
quasi sul punto di scoppiare,
sintonizzato con il mio.
Amen.
Alessandro Pronzato, Via Crucis della Speranza. Tre itinerari,
Gribaudi Editore, Milano 1995, pp. 36-39.
Foto: Disegno a matita di Salomoni Fausto