Monterosso (SP) – Convento dei Cappuccini
Monterosso – Quella dei cappuccini
a Monterosso
è una storia di rinascite:
una testimonianza radicata
nel paesaggio delle Cinque Terre
Vivere la bellezza è indubbiamente
conquista o privilegio.
Abitare la bellezza generata dalla fede
può però essere solo dono.
Un dono che peraltro è offerto a chi sale,
rigorosamente a piedi
per centocinquanta scalini
(altro modo non c’è),
al convento di Monterosso al Mare,
prima (se si giunge da Nord,
o ultima se si arriva da Sud)
delle Cinque Terre.
Si sale al convento
come si sale a Gerusalemme:
un luogo sacro,
anche quando è pianura,
chiede sempre elevazione.
Posto sul colle – un tempo di San Cristoforo,
a cui era dedicata la prima parrocchiale,
e ora dei Cappuccini – domina il golfo e permette
allo sguardo di abbracciare tutti e cinque i borghi
e i promontori che affondano nel mare.
Terrazzo sull’infinito,
gli abitanti di Monterosso
lo hanno conseguentemente
denominato “Paradiso dei frati”
per la bellezza che offre
e anche a causa dell’inaccessibilità
dovuta alla clausura di un tempo.
In ogni caso il silenzio
regna in questo abbraccio
tra cielo, terra e mare
che non è un sentimento
ma uno stato di grazia.
Oggi nel convento però non c’è più una comunità
ma un solo frate, padre Renato Brenz Verca,
che, insieme a tanti amici laici,
ha fatto rinascere questo luogo
perché la bellezza sia annuncio
e l’annuncio bellezza.
Un luogo aperto a tutti, al fine di camminare
nello spirito, e crescere nella fede
e nella conoscenza,; inoltre per fare una vacanza
dove l’anima… non vada in vacanza,
e anche per condividere la stessa tavola,
e i prodotti che questo pezzo di paradiso offre.
Qui ci si immerge totalmente nella bellezza,
la si respira, la si contempla e infine si rinasce.
Ed è perciò una vera festa:
perché la vita interiore
è la vita stessa di Dio
e non c’è gioia più grande.
Quattro secoli di storia e di fede
Il convento fondato dai francescani
ha compiuto da poco i quattro secoli di storia
e ha vissuto tanti momenti bui
e altrettante rinascite.
La sua fondazione è singolarmente
nel nome della pace.
Il paese di Monterosso, infatti,
alla fine del XVI secolo,
è talmente diviso in due fazioni
sempre in lotta fra loro,
tanto che la Repubblica di Genova
pensa di deportare la popolazione in Corsica.
Frate Vincenzo, cappuccino,
invitato per il Quaresimale,
ha tuttavia una soluzione migliore
rispetto alla migrazione forzata:
converte i cuori e porta la pace.
Come racconta esplicitamente Luciano Grasso
in una poesia in dialetto:
400 anni fa i Munterussin / i l’ea tuti sciatà /
nisciü u e pueva carmà / tantu che in Corsega Zena /
a e vureva esilià ma / in tempu de caescima /
frate Vincenzo cun prediche / e tante preghee u già chetà
(400 anni fa i Monterossini / erano tutti agitati /
nessuno li poteva calmare / tanto che in Corsica, Genova /
li voleva esiliare ma / nel tempo di Quaresima /
frate Vincenzo con prediche / e tante preghiere li ha calmati).
Perciò i monterossini grati per la pace
e la scampata deportazione
fanno voto di costruire un convento.
Ci vorranno tuttavia un po’ di anni
e soprattutto l’intervento di frate Clemente
per ricordare la promessa da mantenere.
Così il 20 febbraio 1618
i frati cappuccini dapprima
collocano la croce sulla collina,
nei terreni donati dalla comunità.
Poi l’8 ottobre dell’anno successivo
viene posta la prima pietra dell’edificio:
sarà costruito con l’eredità del nobile genovese
Gian Fabio Squarciafico – che oltretutto abbraccia
la vocazione francescana
col nome di padre Francesco Maria –
e con le donazioni e il lavoro
della popolazione di Monterosso.
Infine il 28 marzo 1622
una decina di frati
fanno ingresso nel nuovo convento.
L’anno successivo
la chiesa viene dedicata
a san Francesco d’Assisi.
Solidali con la gente,
sia per i bisogni spirituali
che per le necessità materiali,
i cappuccini saranno perciò chiamati i “frati del popolo”.
Poi periodi bui
si susseguono a nuovi inizi.
Ad esempio, nel 1810, con la soppressione
degli Ordini religiosi voluta da Napoleone,
il convento viene occupato
dai “preposti della Regia Dogana”.
I frati faranno ritorno in convento nel 1816,
dopo aver vissuto nel borgo accolti dalle famiglie.
Nel 1854, poi
Monterosso viene colpita da un’epidemia di colera
e i cappuccini lasciano volontariamente il convento
per accogliere, presso la parrocchia, malati e moribondi.
Inoltre, nel 1866 le soppressioni e le confische,
volute dal Regno d’Italia,
portano a una nuova violenta
e dolorosa chiusura del complesso francescano.
Nel 1894 però don Giuseppe Policardi
riacquista il convento, la chiesa e gli orti
e li dona ai cappuccini, che torneranno nel 1895.
Nel corso della Seconda guerra mondiale
il complesso viene danneggiato
durante un pesante bombardamento.
Infine nel 1996 i cappuccini lasciano il convento,
ma non è la fine della storia.
In effetti, dieci anni dopo viene riaperto da padre Renato;
ad affiancarlo un laico,
l’architetto Alberto Cipelli,
che si dedica all’accoglienza
e alla valorizzazione culturale.
Entrambi amano questo luogo
come san Francesco amava Madonna Povertà:
alla follia.
È lo stesso amore che danno a tutti
coloro che qui giungono.
Aprono il convento come aprono il loro cuore.
La giornata comincia con la preghiera delle lodi
e poi l’accoglienza degli ospiti,
di chi viene per un ritiro,
dei gruppi di giovani, dei turisti.
Poi il lavoro nell’orto,
nella vigna e nella limonaia,
la cucina, le pulizie, i restauri…
Alla sera infine la Messa nella chiesa,
ricca di opere d’arte del Seicento.
In padre Renato,
che già all’età di sei anni
sente la chiamata al sacerdozio,
scorrono la sapienza e l’urgenza del fare
e insieme il totale affidarsi alla Provvidenza.
Le sue parole e la sua empatia
nascono ovviamente da un lungo frequentare
il dolore degli uomini, ben conosciuto
nelle tante terre di missione
che ha visitato al fine di sostenere con fondi
e progetti la presenza dei cappuccini.
E soprattutto perché il mistero del dolore
l’ha abbracciato fino in fondo,
è un uomo lieto,
cosciente che la strada per lui
è sempre e rigorosamente in salita,
tuttavia è l’unica strada
che valga la pena percorrere.
Quando nel 2014
il convento è primo eletto
al Censimento “I Luoghi del Cuore” del Fai,
nessuno ha dubitato che quel cuore
avesse il battito di Renato, Alberto
e dei tanti che rendono del tutto vive queste mura
e ancor più luminosa questa bellezza.
Il genius loci e l’anima cristiana
Scrive infatti Emanuela Mancino,
docente di filosofia all’Università di Milano Bicocca,
nel volume Andiamo ai frati,
dedicato al convento di Monterosso e alla sua gente:
«Esistono luoghi
che sembrano nascere per insegnare.
Insegnano perché indicano,
fanno segni, con la loro presenza.
Dicono. Mentre tacciono.
Gli antichi parlavano di genius loci,
dotando il luogo di una sua presenza divina,
di una personalità […]
Non si trattava di una presenza
che si insinuava nel luogo:
anzi era l’anima stessa dei luoghi
a porsi come il frutto di storie antiche,
di processi durevoli, di sedimentazione
e stratificazione di memorie,
affetti, vicende individuali e collettive […]
Il tempo e lo spazio si intrecciano
e si stringono scambievolmente in un legame
che affonda le proprie reti nell’intimità
e nella profonda essenza del luogo,
costituendone l’eredità,
il dono assunto, amato,
ma soprattutto la vivente ricchezza affettiva.
Non è facile riconoscere
l’anima dei luoghi».
Eppure l’anima di luoghi
come il convento di Monterosso è lì,
del tutto visibile agli occhi del cuore,
così viva e attraente
da farti sentire innamorato
come la prima volta.
Ed è l’anima anche della gente del luogo:
tra il convento e i monterossini
c’è infatti una sorta di rapporto osmotico,
così forte che nel corso di quattrocento anni
il piccolo borgo dona all’Ordine dei Cappuccini
ben cinquanta frati, tra cui padre Antonio Durante,
missionario in Argentina,
morto in concetto di santità nel 1970 a La Plata,
conosciuto e venerato anche da papa Francesco.
La storia di Monterosso
è perciò una storia che ci aiuta a comprendere
come il coraggio, l’intelligenza
e insieme la fiducia nella Provvidenza
possano vincere l’urto della storia,
l’insipienza e la brutalità degli uomini
e delle ideologie:
la capacità di custodire una storia straordinaria,
perché storia sacra, è nella forza della memoria,
è nella virtù della resilienza, del non arrendersi
alle soluzioni facili (dismettere, vendere,
che spesso è solo tradire)
e di far sì che un luogo di fede, di identità,
un luogo dove il popolo si riconosce come comunità,
possa continuare a esistere.
Questa fedeltà alla storia e alla comunità – i frati e il popolo,
insieme nell’arco di quattro secoli –
è ciò che permette di dare nuovi frutti
nella creatività e nella speranza
e di cogliere le esigenze del presente
senza tuttavia limitarsi al presente.
A Monterosso in effetti
il Cantico delle Creature diventa visione
e le Lodi di Dio Altissimo
vibrano particolarmente nei cuori e in ogni dove:
Tu sei bellezza, sei gaudio, sei sommo bene…
Giovanni Gazzaneo, «Un convento sempre nuovo», in
“Luoghi dell’Infinito”, gennaio 2022, n. 268, pp. 48-53.
Foto: Statua di San Francesco, opera di Silvio Monfrini,
sul Colle dei Cappuccini a Monterosso / fineartamerica.com