Mao

Mao. L’ombra del compagno Mao
L’ambigua vicenda di un capo carismatico carico di colpe
Un saggio di Federico Rampini sul leader cinese

Mao. La mummia di Mao,
tenuta agli arresti nel mausoleo della Tienanmen,
impedisce certo al suo spettro di girare per la Cina,
e conseguentemente di tirare i piedi ai suoi successori.

I quali si contentano invece di conservargli una pensione onoraria
da Padre della Patria, e sorvolano sul resto.
Il resto è il comunismo, salvo il monopolio del Partito,
e i milioni di morti che è costato.

D’altro canto ben altre cifre eccitano la Cina di oggi,
esaltanti come in una frenetica seduta di Borsa,
e i milioni di morti sono anche loro in arresto
da qualche parte, senza mausoleo.

Fra le cifre iperbolicamente tragiche di ieri
e quelle iperbolicamente euforiche di oggi c’è,
a far da frontiera e da cerniera,
quella che chiameremo la «soluzione trenta per cento»
di Deng Xiaoping, sull’operato di Mao:
«70 per cento giusto, 30 per cento sbagliato».

Federico Rampini la cita più volte,
quella commemorazione percentuale, immutata ormai dal 1981,
che serve piuttosto a tenere insieme un riconoscimento degli “errori” di Mao
con la sua consacrazione extraterrestre: innocui l’uno e l’altra.

Rampini, che pur si mostra inesauribile corridore della nuova Cina
e amatore appassionato dell’antica, questa volta lega i suoi racconti
col filo della presenza e dell’assenza di Mao, con la sua ombra,
esorcizzata più che interrogata dai cinesi di oggi.

La maggior parte dei quali ha troppo da fare:
avere idee, lavorare, arricchirsi, fare con una specie di ingordigia
le cose che si fanno in convalescenza da una malattia mortale.
Un’attendibile ricerca (americana, del resto)
assegna infatti ai cinesi il primo posto nella classifica della soddisfazione
per il proprio presente e dell’ottimismo sul futuro.

Ce ne sono certamente (i contadini soprattutto, e i vaganti delle megalopoli)
che ricordano con nostalgia il tempo di Mao,
se non altro perché la povertà universale è meno insopportabile
del confronto con la ricchezza altrui.

Gli uni e gli altri trovano però il tempo per il pellegrinaggio
al mausoleo o alla casa natale di Shaoshan,
attirati da una curiosità o da una venerazione.
Non più, secondo la battuta ricordata da Rampini,
metà per piangerlo e metà per sincerarsi
che sia davvero morto, e non torni più.

Non è successo in Cina finora – dunque non succederà più, non allo stesso modo –
qualcosa che equivalga al XX congresso del Pcus e al Rapporto segreto di Crusciov
sul «culto della personalità e gli errori del compagno Stalin».

Il libro di Rampini (“L’ombra di Mao”,
Strade Blu Mondadori, 15 euro, pagg 291)
si interroga su questa differenza,
per i cinesi di oggi e per gli occidentali già “filocinesi”,
essi stessi per lo più evasivi rispetto a quel passato.
Fra la morte di Stalin e i1 XX congresso trascorsero
tre burrascosi anni di rese di conti.

Mao è morto da trent’anni.
Dice Rampini: se un visitatore trovasse sulla mia parete a Pechino
un ritratto di Mao si meraviglierebbe poco, o niente:
ma sarebbe sconvolto se trovasse
su una parete tedesca un ritratto di Hitler.

Una domanda analoga ispirava la pungente biografia di Stalin
scritta da Martin Amis, Koba il terribile (Einaudi 2003):
com’è possibile che gli intellettuali
ricordando il loro passato stalinista, ci facciano su una risata,
ciò che parrebbe loro inconcepibile a proposito di Hitler?

Naturalmente, le biografie delle persone (e delle generazioni) vogliono la loro parte.
Chi è passato attraverso la propria speranza, la propria illusione,
il proprio errore e la propria colpa sarà riluttante alle comparazioni
e ancora più alle assimilazioni, si aggrapperà alle distinzioni.

Il nazismo non è sicuramente il comunismo,
il comunismo sovietico non è certamente il comunismo maoista…
Hitler non è ovviamente Stalin, Stalin non è comunque Mao…
(Anzi: Mao sembrò l’anti-Stalin).
Il lager non è il gulag, il gulag non è – già, come si chiama?

Non l’abbiamo ancora imparato abbastanza, vero? Il laogai?
Anche il gulag, cera voluto un bel po’…
Questione di tempo, dunque, di attenuanti, di prescrizione?
Dirò fra un momento che cosa ne pensi:
dopotutto si tratta anche di me.

Rampini non è affatto indulgente né col comunismo cinese del tempo di Mao,
né con la sua prosecuzione-capovolgimento nella Cina illiberale di oggi.
Ha interrogato molti testimoni delle tragedie,
soprattutto della cosiddetta Rivoluzione culturale,
e conosce la bibliografia più recente e sfrenata.

Il Mao. La storia sconosciuta, di Jung Chang e Jon Halliday
(Longanesi 2006, ma l’edizione originale è del 2003),
raccoglie novecento pagine di nefandezze e imposture raccapriccianti.

Rampini si sottrae tuttavia alla riduzione di Mao a un mostro.
Oltretutto, quella che un tempo era la storia dei grandi uomini
– e dei grandi criminali – vista con gli occhi del cameriere,
ora è vista con l’occhio del medico curante
o con quello ancora più clinico della guardia del corpo.

E se nessuno è un grand’uomo per il proprio cameriere,
ancor meno può esserlo per la propria guardia del corpo:
«imperatore sadico e debosciato, barbone sudicio e impudico»…

Tutto vero, osserva Rampini, e però «fino all’ultimo,
egli conserva la capacità di rappresentare una pulsione antigerarchica
e antiautoritaria, la rivincita della periferia sul centro».

Quali ombre cinesi hanno adescato soprattutto la sinistra occidentale?
A parte il fanatismo più liturgico e dogmatico
– come «Servire il popolo», o i partiti marxisti-leninisti –
ne indicherei due: la povertà, e il volontarismo.

Rampini li ricostruisce bene: i Piedi Scalzi
(quando toccò all’Iran furono anche lì i Senza Scarpe),
il pugno di riso, le pantofole, le uniformi per tutti.
La povertà rivendicata e vendicata ha infatti una irresistibile forza di seduzione,
e ogni rivoluzione popolare si sogna come un ritorno alla povertà originaria.

La povertà è l’origine. L’epopea della povertà cinese arrivava in omaggio
a quelli di noi che nel ’62 studiavano le mappe di confine fra Cina e India,
con i calendari illustrati e i segnalibro di piume colorate di Guozi Shudian.

Esotico e cristiano insieme, come quello dei vietcong coi sandali,
il richiamo si sarebbe appannato solo con l’accendersi delle lotte operaie da noi,
l’Indocina rimpatriata nell’officina di Agnelli.

Tornò, più grave – ma anche più dubbioso e presto spaventato –
l’abbaglio della Rivoluzione culturale, l’idea di una ribellione
contro autorità e burocrazia, una rivoluzione nella rivoluzione.
Si trattò di una infamia senza eguali, della persecuzione universale,
della devastazione della memoria e della bellezza.

E veniamo al secondo punto, più trascinante, che Rampini rievoca
attraverso la denuncia precoce del sinologo belga Simon Leys:
il volontarismo, l’idea cioè che la competenza scientifica e tecnica
siano secondarie se non dannose.
(Alla testa della Cina di oggi, ricorda Rampini,
sono Hu Jintao e Wen Jabao, due ingegneri…).

Il volontarismo fu il segno della ribellione giovanile degli anni Sessanta in Occidente,
che muoveva dallo scandalo morale: la fame, lo spreco, il razzismo,
la guerra, la confusione fra scienza e determinismo.
«Mao si rifiuta di ascoltare gli economisti, né vuole importare tecnologie straniere».
Quel primitivismo scambiato per umanesimo: rimettere al centro l’uomo,
rifarlo nuovo, e il demenziale altoforno da villaggio.

Era questo il Mao che piaceva, quello degli inediti,
dei pensieri semplici (sono insidiosi i pensieri semplici,
possono essere il semplicismo demagogico
o la nettezza evangelica: guai a sbagliare).
La fede sposta le montagne,
e anche il popolo cinese, «se continuerà a scavare».

Il Libretto rosso, ricorda Rampini,
è il secondo bestseller assoluto dopo la Bibbia.

La Cina, come oggi i paesi arabi, sembrava tuttavia rinnegare il proprio passato.
Needham aveva un bel ricordare i primati cinesi nella storia della scienza,
era il momento dell’«energia rivoluzionaria al posto dell’energia elettrica» (Leys).

Sono tentato di dire che l’invasamento iconoclasta delle Guardie rosse,
ebbe, in nome dell’Ideologia, un significato affine
a quello incarnato oggi, in nome della Religione, dal jihad islamista…
Si capisce la restaurazione: né bianco né nero,
il gatto acchiappa il topo, e si autocertifica rosso.

Un orizzonte si è chiuso, con la fine del comunismo cinese,
l’idea di un progresso capace di accorciare chirurgicamente certi passaggi,
ma tenuto ad attraversare le fasi successive:

schiavitù, lavoro servile, accumulazione originaria e forza lavoro libera e proletaria,
capitalismo sviluppato e forze produttive soffocate dai rapporti di produzione,
fino alla maturazione del socialismo e all’inconveniente provvisorio
della dittatura proletaria, con vista generosa sul comunismo,
fine della divisione del lavoro ed estinzione dello Stato.

Tutto l’itinerario è andato a quel paese,
e in modo travolgente nell’Asia prima giapponese poi cinese.
La Cina di oggi non si accontenta di questo carnevale dell’economia,
ma sembra smentire la speranza che una libertà del mercato
sia destinata a spezzare la camicia di forza del dispotismo politico.

Può darsi che si tratti di una questione di tempo:
ma ne è passato già molto, e la Cina è un altro mondo.
Sia i suoi capi che certi pensatori “realisti” occidentali
proclamano che è la democrazia a non conciliarsi con la realtà cinese.
Relativismo oltranzista, se non facesse un po’ ridere l’idea di relativizzare i tic politici
del primo paese del pianeta per popolazione, e fra non molto per tutto il resto.

All’idea che la democrazia non faccia per la Cina,
Rampini però non abbocca affatto, e chiama a testimoni i giovani di Tienanmen.
Anzi, pensa che la “demaoizzazione”, compiuta nei fatti ma elusa di diritto,
debba andare insieme a un esame di coscienza del paese intero,
qualcosa di paragonabile a ciò cui si è costretta la Germania.

Benché la Cina appaia per il momento meno intenzionata
a conquistare il mondo che a comprarlo,
il maoismo comunista mutato in nazionalista
«può diventare rapidamente xenofobo, intollerante, aggressivo…».

Vivo Mao, si fabbricarono otto miliardi di spille da giacca.
Gli studenti di Tienanmen 1989 eressero una specie di statua della Libertà,
con una torcia in mano, ricorda Rampini, proprio dirimpetto al faccione di Mao.
La chiamarono Dea della Democrazia.
Durò poco, ma chissà. La Cina è vicina. Vicinissima.

Adriano Sofri, «L’ombra del compagno Mao.
L’ambigua vicenda di un capo carismatico carico di colpe»,
in “La Repubblica”, venerdì 10 novembre 2006, p, 59.

Foto: Mao Tse-tung / museodelcomunismo.it

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