La manna
Secondo gli attuali criteri scientifici, alcune guarigioni sono inspiegabili, per questo le si ritiene un miracolo, frutto dell’intercessione di qualche santo. Altre, quelle ottenute con la somministrazione di farmaci, sono ritenute un fatto naturale e non è chiamato in causa il soprannaturale. Eppure viene da chiedersi se chi è curato dal medico debba essere meno riconoscente al Signore; la seconda grazia è forse inferiore alla prima?
Per chi crede, tutti gli eventi, anche i più ordinari, parlano di Dio. Un’incantevole aurora, il profumo dei narcisi, il sorriso di un povero, il pianto di una madre o il dolore di un bimbo, sono un invito a sollevare lo sguardo al cielo, sono segni dell’amore di Dio e spesso anche motivo di legittimi interrogativi sul suo modo di gestire il creato e di intervenire nella storia dell’uomo.
Israele è un popolo che crede nel Signore e non ha bisogno di verificare interventi straordinari per accorgersi della sua presenza. Io sono colui che ti sto sempre accanto è il significato del nome con cui Dio si è rivelato a Mosè (Es 3,14) e, durante l’esodo, la sua assistenza è apparsa evidente in ogni istante.
Nella I Lettura di oggi sono riferiti due fatti che Israele ha letto con gli occhi della fede: le quaglie e la manna.
Si tratta di fenomeni molto naturali, ben noti, che si verificano anche oggi. In primavera e in autunno le quaglie emigrano a stormi fra l’Africa, l’Arabia e i paesi del Mediterraneo. Quando, stremate, sostano nella penisola del Sinai, divengono facile preda dei beduini.
La manna, a sua volta, non è che la secrezione provocata dalla puntura di alcuni insetti sulle foglie del tamerisco, che è detto dai botanici Tamarix mannifera. Al mattino tale secrezione cade a terra presentandosi con la forma di grani biancastri. I beduini apprezzano la manna che utilizzano come alimento ricco di zuccheri, e se ne servono per dolcificare bibite o per preparare dolci.
Dio ha nutrito il suo popolo facendogli trovare questi alimenti lungo il cammino.
La I Lettura inizia con le mormorazioni del popolo che, dopo i primi giorni di entusiasmo per l’avvenuta liberazione, comincia a sentire nostalgia dell’Egitto (vv. 2-3).
È significativo il fatto che la terra di schiavitù, dei lavori forzati e delle percosse ora sia ricordata, in un momento di allucinazione collettiva, come un Eden dove si banchettava a base di carne e di pane a sazietà.
È l’immagine di quanto accade a chi, abbandonata la condizione di peccato, di schiavitù dei vizi e delle passioni sregolate, ha intrapreso il cammino verso la libertà. Trascorsi i primi momenti di serenità e di pace, che accompagnano sempre le conversioni al Signore e le scelte evangeliche, è normale che compaia il rimpianto per la vita antica, per le abitudini, per i comportamenti che non costituivano un motivo di vanto, ma offrivano pur sempre vantaggi e qualche gratificazione.
Di fronte alle mormorazioni del popolo ci aspetteremmo una reazione dura da parte di Dio, invece no, egli non castiga, risponde inviando la manna (v. 4).
Nei momenti di scoraggiamento, quando si è tentati di ritornare sui propri passi, non va dimenticato che Dio non si arrabbia per le fragilità dell’uomo, non si sdegna per le debolezze e le ricadute. Non solo non punisce chi è esitante, ma lo accompagna più da vicino e, come ha fatto con Israele, gli offre nuovi segni del suo amore, nuove prove della sua presenza.
Il dono della manna, da un lato fu un aiuto, dall’altro costituì una prova per Israele, uno stimolo per la crescita della sua fede. Il cammino nel deserto doveva servirgli da apprendistato, doveva essere una scuola per abituarlo al controllo dell’avidità. Doveva imparare a non accaparrarsi una quantità di manna, ossia di beni superiori al bisogno giornaliero, ad accontentarsi della manna, ossia del «pane quotidiano», mostrando che nutriva piena fiducia nell’amore provvidente del suo Dio.
La lezione di vita appresa da Israele rimane valida per l’uomo d’oggi, sempre tentato di dominare non solo il presente, ma anche il futuro, che invece appartiene solo a Dio. Nel Padre nostro Gesù invita a chiedere al Signore non la sicurezza per l’avvenire, ma il pane «per questa giornata». Chi prega cosi si rifiuta di accumulare cibo «per il giorno seguente», mentre i fratelli soffrono la fame «oggi», libera il proprio cuore dalla bramosia del possesso e dall’angoscia per il domani (Lc 12,22-34).
Anche i rabbini del tempo di Gesù raccomandavano di non lasciarsi dominare dalla inquietudine e dall’affanno per il cibo. Rabbi Eliezer insegnava ai suoi discepoli: «Chi ha da mangiare per oggi e si chiede: che cosa mangerò domani?, è un uomo di poca fede».
L’ultima parte del brano (vv. 13-15) chiarisce che la manna non è stata un dono di Mosè al popolo; egli se ne è cibato, assieme agli altri. È stato il Signore a dare questo alimento. Mosè ha solo saputo riconoscere l’origine del dono e ha invitato il popolo a guardare verso l’alto, verso Dio (v. 15), nell’attesa che egli inviasse dal cielo l’altro suo pane, quello che comunica la vita che non perisce (Dt 8,2-3).
Fernando Armellini, «Ascoltarti è una festa». Anno B. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2003, pp. 435-437, con miei piccoli adattamenti.
Foto: Antonio Tempesta, «La raccolta della manna», olio su alabastro, 1600 ca., Museum of Fine Arts, Boston / rivistastudio.com