Imitazione di Cristo nell’ortodossia russa
Imitazione di Cristo – «Dopo la Bibbia,
l’Imitazione di Cristo è certamente il libro più citato
da C. S. Lewis nelle lettere che scrisse a don Calabria.
Credo pertanto che studiare a fondo l’immenso posto
che questo libretto occupò nella sua spiritualità
riserverebbe non poche sorprese».
Così scrive Luciano Squizzato
nell’introduzione al libro “Una gioia insolita.
Lettere tra un prete cattolico e un laico anglicano”
(Milano, Jaca Book, 2017, pagine 312, euro 18)
in cui è pubblicato il carteggio tra i due
(insolito anch’esso, per molti aspetti).
«L’ascetica personale del convertito
– continua a riguardo dello scrittore inglese –
si modellò sicuramente
su questo sapiente direttorio spirituale
totalmente incentrato sul mistero di Gesù
intuito come croce, risurrezione, amore ed eucaristia.
La saggezza umana e cristiana di quest’operetta
era infatti in perfetta sintonia
col suo pensiero di moderno anglicano».
Stessa sintonia e stessa fortuna
anche nel mondo ortodosso,
ma non però in tutte le epoche
e non in tutti i casi,
con alcune eccezioni eccellenti.
Studiare a fondo il posto
che l’Imitazione di Cristo ha occupato,
nei secoli, nella spiritualità cristiana
rivela davvero risvolti inattesi.
È dello stesso avviso
anche padre Antoine Lambrechts,
in un lungo studio
“Perle précieuse ou fruit de l’orgueil?
La réception de Imitation du Christ
dans l’Église orthodoxe russe”
uscito su «Irénikon» (89, 2016, pp. 276-362).
In questo studio padre Lambrechts
si occupa in maniera esaustiva e documentata
della fortuna di questo testo
dal XVII secolo fino ai giorni nostri.
Questo studio, in realtà,
rielabora e aggiorna il testo di una conferenza
tenuta nel luglio del 2005 a Deventer in Olanda,
in occasione del venticinquesimo anniversario
dell’Associazione ortodossa San Nicola da Mira,
su suggerimento di padre Theodoor Van der Voort,
rettore della parrocchia ortodossa della città neerlandese.
Lo scopo dello studio, quindi,
non è solo quello favorire il dialogo ecumenico,
ma anche far luce soprattutto
su tutte le “pietre di inciampo” teologiche
che ne possono rallentare il passo.
Lo stesso monastero di Chevetogne,
dove padre Lambrechts
vive la benedettina stabilitas loci,
respira già con due polmoni,
per citare la famosa immagine di Giovanni Paolo II.
Il convento infatti ha due chiese,
una chiesa di rito latino, dedicata a Gesù,
e l’altra chiesa di rito bizantino
dedicata all’esaltazione della Vera Croce.
Una vocazione all’ecumenismo,
pertanto quella di Chevetogne,
già presente del dna del monastero,
espressamente voluta dal fondatore,
Lambert Beauduin,
anche se la comunità è composta interamente
da monaci benedettini cattolici.
Ma torniamo adesso al “De imitatione Christi”
di Tommaso di Kempis.
Dalla lunga e accurata disamina di padre Lambrechts
emerge chiaramente che il successo di questo libro
nella Chiesa ortodossa russa è stato piuttosto unanime
lungo tutto il periodo studiato, dalla metà del Seicento
fino alla Rivoluzione, e anche oltre,
fino ad arrivare a padre Aleksandr Men’.
Questi morì tragicamente
– la scure di un ignoto assassino
lo colpì sul viottolo che stava percorrendo
al fine di andare in chiesa –
nel settembre del 1990.
Un altro aspetto importante, poi,
è che si tratta di una fortuna spontanea.
Sono gli stessi ortodossi, infatti,
ad aver preso l’iniziativa di tradurlo,
copiarlo, diffonderlo e consigliarlo.
Lo testimonia certo il numero
e la regolarità delle edizioni,
e pure la quantità delle copie manoscritte.
“L’Imitazione di Cristo”, inoltre,
è stata letta negli ambienti più diversi,
dapprima nei monasteri, poi dai nobili,
diffondendosi anche alla corte dello zar,
diventando presto patrimonio culturale comune,
citata da poeti e scrittori.
Dopo la comparsa della “Filocalia”
e del rinnovamento monastico dell’Ottocento,
troviamo ancora Tommaso da Kempis
sugli scaffali degli stessi lettori,
ma questa volta in compagnia dei Padri orientali.
Alcuni ipotizzarono addirittura
un’origine greca per il “De imitatione Christi”,
segno di una totale assimilazione.
Cosa trovavano in questo libro
che non fosse già presente
nella letteratura ascetica ereditata da Bisanzio?
si chiede padre Lambrechts.
Si tratta, in pratica, di un testo semplice,
umile, ma capace di consolare,
risponde l’autore dell’articolo.
Ma soprattutto – scrive, citando Berdiaev –
si tratta di un libro
«che supera ogni divergenza confessionale»
e che soprattutto consiglia
di «scendere al fondo della coscienza personale,
uscire da se stessi al fine di entrare in Dio».
Un teologo russo contemporaneo,
l’igumeno Petr Meščerinov,
lo definisce non solo un cammino verso Cristo,
ma con Cristo.
Nel corso dell’Ottocento, però,
qualcosa inizia a cambiare:
il suo stesso successo si ritorce contro il libro,
facendolo diventare il simbolo di un passato
da cui liberarsi.
Appaiono le prime voci esplicitamente critiche:
c’è chi trova, infatti, l’Imitazione di Cristo
inadatta a una società che cambia,
mentre cresce il numero
di chi preferisce fare riferimento
soltanto ai Padri orientali.
In questo contesto spicca indubbiamente
la dura condanna di sant’Ignazio Briantchaninov,
molto critico anche nei confronti
di tutta l’“idolatria” occidentale.
Il rischio di queste contrapposizioni così violente,
conclude l’autore del saggio, non è solo
non comprendere più i cristiani di Occidente,
ma finire per censurare anche la propria tradizione
e rigettare pertanto il proprio passato ecclesiale.
Silvia Guidi, «L’Imitazione di Cristo
nell’ortodossia russa», in “L’Osservatore Romano”,
mercoledì 4 ottobre 2017, p. 5
Foto: Tommaso da Kempis,
Imitazione di Cristo / abebooks.it