Ignazio Silone (pseudonimo di Secondino Tranquilli) (Pescina, L’Aquila, 1° maggio 1900 – Ginevra 22 agosto 1978), è stato uno scrittore, giornalista, politico, saggista e drammaturgo italiano. Nel 43esimo della sua morte lo ricordiamo così come è stato ricordato allora da “Avvenire”, domenica 27 agosto 1978: Questa mattina, a Pescina dei Marsi (L’Aquila), suo paese natale, si svolgeranno i funerali dello scrittore Ignazio Silone, morto in una clinica di Ginevra martedì scorso a 78 anni. Ricordiamo nuovamente Ignazio Silone con tre contributi: un profilo di Giorgio Petrocchi, una testimonianza di don Giuseppe Zambarbieri e… ampi stralci di un saggio che lo stesso Ignazio Silone pubblicò sul mensile «Prospettive Meridionali», nei numeri di dicembre ’55 e gennaio ’56. Il lavoro di Ignazio Silone, di smagliante attualità, apparve sulla rivista (pubblicata dal ’53 al ’59 e diretta da Angelo Paoluzi) nell’ambito di un dibattito sulla narrativa meridionale, cui parteciparono anche Elio Bartolini, Piero Bigongiari, Giancarlo Vigorelli, Ferdinando Virdia e Leone Piccioni.
Tra socialismo umanitario e cristianesimo
Credo che solo con la pubblicazione, si spera imminente, dell’ultimo romanzo, «La speranza di Suor Severina», sarà possibile ricostruire per intero la storia della formazione culturale e dello sviluppo ideologico di Ignazio Silone, non tanto per spiegare le ragioni e gli interrogativi aperti dal dramma «Ed Egli si nascose» e maturati nel decennio di silenzio dall’«Avventura di un povero cristiano», e quindi chiudere il conto con uno scrittore così serio, austero, consapevole delle proprie scelte, ma per poter meglio tornare con riflessione critica sulla complessità della ideologia siloniana.
Egli soleva affermare d’essere un cristiano senza Chiesa e un socialista senza partito ed era forse così. Ma come la sua travagliosa giovinezza di militante comunista e il coraggio con cui, primo ad accorgersi delle aberrazioni del leninismo e degli orrori dello stalinismo, volse le spalle al partito, non senza duri contrasti con Togliatti e ferme reiezioni del servilismo del Pci nei riguardi del sanguinario dittatore del Cremlino, avevano inciso profondamente sulla qualità dei suo socialismo tra il ’40 e il ’60 e sulla sua indelebile condizione di «ex», così la sua adolescenza cristiana si svolse all’interno della Chiesa e verso di essa rimase sempre in una posizione difficile ma sincera, aperta, oserei dire “disponibile».
Occasioni perdute di dialogo
Qualcheduno di noi cattolici intrattenne con Ignazio Silone rapporti di affettuosa amicizia, e dinanzi alla triste notizia della sua scomparsa non ho rimorsi, perché su riviste e cattoliche e laiche non trascurai di commentare le sue opere sin dalla prima edizione italiana di «Fontamara» (Roma 1947). Ciò non mi vieta di sottacere che il mondo cattolico avrebbe dovuto intrattenere con lui rapporti di stretta e proficua collaborazione, impegnarlo a chiarire per sé (e per noi) le sue idee sui problemi più importanti che concernono la vita morale di oggi, scavare assieme a lui le radici della sua fede nei valori e nella parola del Vangelo, un libro che sempre fu anche suo. Abbiamo purtroppo perduto tante occasioni di stringere alleanze costruttive, nel campo dell’organizzazione della cultura, con quei laici non increduli, non atei, ma interessati profondamente e da tempo alla vita della comunità ecclesiale.
Nell’opera di Ignazio Silone, elaborata durante gli anni dell’esilio, e anche nei primi romanzi di produzione italiana, «Una manciata di more», «Il segreto di Luca», «La volpe e le camelie», le figure dei sacerdoti entrano nella trama narrativa per lo più in un ruolo essenziale alle significazioni morali e simboliche del singolo romanzo, invece della singola opera del singolo testo letterario. Partecipano con passione alla miserevole vita dei «cafoni» d’Abruzzo, sono essi stessi i rappresentanti del mondo popolare, con tutti gli slanci e le lacune, la forza d’animo e la disperazione dei contadini marsicani (emerge in questa galleria il personaggio di don Benedetto, il prete antifascista di «Vino e pane», profondo conoscitore dell’animo dei contadini ribelli, ai quali fa rivelare la radice cristiana delle loro istanze). Ignazio Silone capovolge lo «standard» abituale della letteratura meridionalistica in cui il clero si pone «dalla parte dei padroni» e del resto contadini o padroni, comunisti o preti, la mano delicata anche se fermissima di Ignazio Silone non pesa duramente sul personaggio negativo né indulge a compiacenze emotive sui «positivi». Ma non è tanto questione di opposizione di figure peculiari del mondo popolare, quanto di calibratura morale del romanzo e di una sua interiore vitalità spirituale che serpeggia nelle passioni, nelle credenze, nelle speranze dei «cafoni», nella amarissima lotta per conservare la propria identità sociale dinanzi allo sfacelo della democrazia liberale e all’avvento del regime fascista.
«Vino e pane», ancora più di «Fontamara», affronta quella realtà conflittuale con rudezza di tratto e caldo affetto per la vita rurale della Marsica, anche se «Fontamara» registrava con maggiore evidenza la sorpresa e la nostalgia dell’esule che ricostruisce nella memoria i luoghi, i volti, le parole e i gesti di coloro con i quali aveva vissuto la propria giovinezza e aveva combattuto, s’era illuso, era caduto nella disperazione, aveva registrato il fallimento delle rivendicazioni contadine.
Per quanto accolto con onori al suo rientro dall’esilio, Ignazio Silone ebbe ben presto la percezione d’esser considerato nell’ambiente culturale italiano poco meno che un «ex-lege», e anche la politica attiva fini presto per stancarlo. Le sue storie narrative apparvero non mordenti e anche poco attuali, e l’attenzione della critica ufficiale fu sporadica e sovente superficiale.
Nel decennio del neorealismo il suo modo di osservare la realtà apparve antiquato, convenzionale, frutto piuttosto di ripetizione di formule veristiche che acquisizione di un nuovo spazio letterario. Nella successiva età dello sperimentalismo formale e strutturale i suoi sistemi di taglio narrativo ancor più parvero fuori del tempo, e la sua prosa priva di innovazioni stilistiche e di audacie sintattiche.
Venne considerato in positivo soltanto come un interessante esponente della letteratura dei fuorusciti.
Anche sul piano politico i suoi nuovi compagni di partito, i socialdemocratici, finirono col dimenticarsi di lui; né Ignazio Silone era uomo da andare a caccia di riconoscimenti ufficiali, rimasto come era un abruzzese malinconico e schivo, privo di ambizioni e fedele alle proprie tradizioni. Solo quando vide profilarsi all’orizzonte l’oscura nuvola dell’intolleranza politica e della repressione, coi fatti di Ungheria, avvertì la necessità di scendere sul terreno del messaggio politico-morale scrivendo due delle più significative e allarmanti testimonianze della battaglia democratica contro il comunismo internazionale: «La scelta dei compagni», pubblicata nel 1954 da quella «Associazione per la libertà della cultura» che egli fondò e diresse, e il forte appello del 1965, «Uscita di sicurezza», cui si affiancò l’iniziativa coraggiosa della rivista «Tempo presente».
Mi sono trattenuto più volte sull’itinerario culturale di Ignazio Silone, anche inserendo i vari momenti dell’opera nel contesto della letteratura contadina dell’ultimo trentennio, riorganizzando di recente un discorso critico complessivo. M’è doveroso, nella presente occasione così dolorosa, soffermarmi su due momenti della sua «forma mentis» morale, l’uno di breve ma intensa durata, l’altro di più lungo ed elaborato impegno, «L’avventura di un povero cristiano».
Il primo brano, veramente da antologia, è rappresentato dall’incontro con don Orione, durante il terremoto di Avezzano e nel viaggio sino a Ventimiglia. Poche parole, ma che tramandano un ritratto perfetto, del grande apostolo cristiano, l’instancabile opera di soccorso materiale e spirituale di don Orione, la figura esile e svelta, lo sguardo intenso, l’eloquio breve e forte. Io credo che Ignazio Silone abbia recato con sé, ininterrottamente nella vita, l’immagine di don Orione tra le macerie della Marsica e che quell’immagine gli sia tornata dinanzi anche durante queste lunghe settimane ginevrine.
L’avventura di un povero cristiano
Silone, anche nelle conversazioni private, insisteva sul ricordo del Santo, lo sentiva come una presenza delicata nella propria memoria, ripetendo perfino le sue stesse parole: «La fedeltà ai poveri è una bussola che non inganna. Per la conferma dei miei voti, ho voluto scegliere la cappella di un carcere».
La tematica dell’«Avventura di un povero cristiano», è, come ognuno sa, incentrata sulla figura di Celestino V. Forse per sfuggire alla tristezza del tempo presente, per cercare un simbolo che fosse ancora significante ma senza apparire eccessivamente correlato all’oggi, Ignazio Silone dopo tanti romanzi collocati nel ventennio fascista ha deliberatamente scelto di andare indietro ne! tempo, di effettuare una ricognizione, attualizzabile ma non troppo, nel mondo dell’ascesi duecentesca e delle lotte politico-religiose di quel secolo. Non nascosi allo stesso autore, né può essere oggi celato che l’impianto storico dell’«Avventura» – il breve pontificato di Celestino V, il «gran rifiuto», l’ascesa del teocratico ed energico Benedetto Caetani al gran Soglio col nome di Bonifacio VIII, l’incarceramento di Pietro Da Morrone nella Rocca del Fumone – risulta nel complesso piuttosto gracile, e che la storiografia recente ha riesaminato molti di quei drammatici fatti alla luce dei documenti.
Tutta la polemica antibonifaciana risente ancora della libellistica ghibellina e dell’immenso peso delle invettive dantesche. Ma un romanzo non è un’opera storiografica. E pertanto «L’avventura di un povero cristiano» va valutata come un esemplare dell’umanitarismo siloniano nel voler cogliere i dati essenziali di una permanente allegoria: il conflitto tra la dura volontà del potere e l’inerme difesa dello spirito evangelico, tra la legge imposta dalla gerarchia e l’afflato profetico e visionario della ascesi. Dietro l’ombra di Bonifacio VIII si intravvedono quei personaggi del nostro secolo che hanno esercitato senza alcun limite e sinistramente il potere assoluto, impugnando l’arma della repressione e dell’assassinio politico, e coloro che hanno creduto nei valori della libertà delle idee e dell’umana giustizia anche se consapevoli di cadere sconfitti.
L’esperienza giovanile nei comunisti
Nonostante il tessuto storico, il libro di Ignazio Silone non offriva alcun riferimento polemico alla Chiesa del nostro tempo, ma simboleggiava piuttosto la lotta tra i potenti e la moltitudine degli uomini in termini di allusione politica. La chiave del libro era probabilmente nell’esperienza giovanile di Ignazio Silone nei ranghi del partito comunista e nella precoce avversione che egli maturò nel 1927 allorché coraggiosamente si oppose a Stalin e maturò la convinzione che i comunisti italiani avrebbero sempre seguito gli ordini del Cremlino (donde la sua sofferta ma decisa uscita dal partito).
Sarebbe ingenuo leggere l’«Avventura» come sola allegoria del dissidio tra il potere accentratore del bolscevismo e lo spirito ingenuo di giustizia del giovane militante abruzzese, ma nel complesso travaglio simbolico del romanzo il rifiuto personale del potere, l’esperienza giovanile, la caduta delle illusioni nutrite durante e all’indomani del congresso di Livorno, la visione degli orrori della guerra, la persecuzione degli ebrei, la strage di tanti innocenti, restano un punto cogente di frizione della storia di Celestino V col mondo contemporaneo. E attraverso la rappresentazione del tutto letteraria dell’eremita della Maiella, la sua devozione alla parola di Cristo, la sua consapevolezza a non riuscire a reggere il peso della tiara in un’età così conturbata dalle lotte tra Impero, Francia, Comuni e Papato, Ignazio Silone ha indugiato con delicatezza di tratto sulla perennità della fede nella bontà, nella purezza del cuore, nello spirito evangelico di carità e povertà, creando col «suo» vecchio e stanco Celestino un personaggio letterariamente molto vero e suggestivo, e dunque impegnandosi a proclamare la verità del Vangelo: «A ben riflettere e proprio per tutto dire, rimane il Pater Noster».
Questo fu l’anelito cristiano di Ignazio Silone, avvertitamente alimentandosi del fervore apostolare e umano del Concilio Vaticano II; un anelito che non raggiunse mai la certezza, né mai si disciolse dai residui del suo umanitarismo socialista o meglio socialisteggiante, eppur fu ricco di aspirazioni e di tremori religiosi.
Importa poco oggi che il suo nome non possa essere iscritto a tutte lettere nel novero degli scrittori cattolici del Novecento; essenziale è la circostanza che, accanto alla sua lezione di maestro di libertà e di democrazia, permane una ininterrotta filigrana di fedeltà al Vangelo.
Con quest’uomo così moralmente severo e coerente, la cultura italiana perde uno degli intellettuali più probi e onesti, uno dei narratori che più hanno contribuito a far conoscere la letteratura italiana di oggi nel mondo, e che hanno tessuto uno stretto dialogo tra cultura laica e cultura cattolica.
(1. Continua)
Giorgio Petrocchi, «Tra socialismo umanitario e cristianesimo», in “Avvenire”, domenica 27 agosto 1978, p. 9.
Foto: Ignazio Silone / biografieonline.it