Giuseppe da Leonessa (1556-1612) – Sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini
4 febbraio
Giuseppe da Leonessa (Giuseppe Desideri), terzo di otto figli,
nasce a Leonessa nell’Alta Sabina (Rieti) l’8 gennaio 1556
da Giovanni Desideri e Francesca Paolini.
Al momento del battesimo riceve un nome insolito, Eufranio,
ma dal significato molto bello: portatore di gioia.
Famiglia ricca e appartenente alla nobiltà del paese,
tuttavia sfortunata: infatti i genitori muoiono in breve tempo
quando Eufranio è ancora piccolo.
Accolto dapprima dallo zio paterno, Giovanbattista Desideri,
è avviato successivamente agli studi umanistici a Viterbo e poi a Spoleto,
dove matura un’educazione religiosa e una notevole cultura.
Ornato di eccellenti doti,
non mancano nondimeno a Eufranio le prospettive di un ambito matrimonio,
tuttavia egli dimostra di avere altre aspirazioni
e di fatto costantemente rifiuta le proposte caldeggiate dai parenti.
In conseguenza di grave malattia,
è consigliato di ritornare al paese natale:
da allora comincia dapprima a frequentare il convento dei Cappuccini
e successivamente, in occasione di una visita del provinciale dell’Umbria,
chiede di essere accolto tra i frati.
Così, all’insaputa dello zio e degli altri parenti,
Eufranio a sedici anni si ritira
nel conventino delle “Carcerelle” di Assisi, tra i cappuccini.
I famigliari cercarono invano di strapparlo al convento,
adducendo la necessità di assistenza che hanno le quattro sorelle,
ma Eufranio, ai richiami del sangue, preferisce la voce di Dio
e, trascorso in seguito nel fervore l’anno di prova,
emette poi la professione religiosa l’8 gennaio 1573,
prendendo il nome di fra Giuseppe da Leonessa.
Si appassiona in particolare alla dottrina di san Bonaventura,
seguendo l’indirizzo cappuccino allora prevalente
che vede in essa una armoniosa sintesi
tra spiritualità contemplativa e slancio apostolico.
Sunteggia, tra l’altro, un’opera intitolata “Monarchia”,
in cui è evidente l’influsso delle opere del Dottore serafico
“Itinerarium mentis in Deum” e “De reductione artium ad theologiam”.
Si prepara inoltre all’apostolato con un serio studio
della teologia, della sacra Scrittura e della morale,
attento soprattutto alle esigenze della restaurazione religiosa postridentina.
Dopo l’ordinazione sacerdotale ad Amelia il 24 settembre 1580,
continua la sua preparazione nel convento di Lugnano in Teverina.
Pur sentendosi fortemente attratto dalla solitudine contemplativa,
supera tuttavia il dilemma azione-contemplazione come san Francesco.
In un suo appunto infatti scrive:
“Colui che ama la vita di contemplazione,
ha un grave dovere di uscire nel mondo a predicare,
soprattutto quando le idee del mondo sono molto confuse
e sulla terra abbonda l’iniquità.
Sarebbe iniquo tenere, contro la carità,
ciò che solo per carità è stato istituito e donato”.
Dopo aver ricevuta il 21 maggio 1581 la patente di predicazione
dal vicario generale dell’Ordine, Giuseppe da Leonessa si dedica immediatamente
ad evangelizzare i poveri nei villaggi di campagna
e tra i paesini disseminati sui monti dell’Umbria, Lazio e Abruzzo.
Potrebbe diventare un predicatore famoso per le sue doti di mente e di cuore,
salendo sui pulpiti di città,
tuttavia egli preferisce predicare solo nei piccoli paesi:
si considererà infatti sempre un predicatore
per contadini, pastori, montanari e bambini.
Lo slancio e il tono della sua predicazione appaiono chiari fin dall’inizio,
come è largamente documentato nei processi
che riportano un episodio dove c’è tutto il carattere
e la personalità di padre Giuseppe da Leonessa.
Imperversa il banditismo nelle zone appenniniche del centro Italia.
Una cinquantina di questi banditi affliggono il paese di Arquata del Tronto
e nessuno riesce a domarli, neanche la forza pubblica.
Giunto in quel luogo per motivi di questua,
padre Giuseppe da Leonessa è pregato di porvi rimedio.
Egli va allora a cercarli nei loro nascondigli tra i monti
e riesce a radunarli in una chiesetta.
Poi impugnando il suo Crocifisso li convince a mutare vita.
Essi divengono da quel momento docili e compunti
e sono tra i più assidui ascoltatori delle sue prediche,
quando padre Giuseppe da Leonessa va a predicarvi la quaresima.
Il segreto di questo successo,
se si ricollega al carattere indomito del personaggio,
è da attribuirsi tuttavia soprattutto alla sua intima unione con Dio,
coltivata con una preghiera incessante.
Giuseppeda Leonessa accarezza nondimeno nel suo cuore
il desiderio di andare nelle missioni tra gli infedeli.
Proprio in quegli anni, infatti,
si va profilando una possibile evangelizzazione dei musulmani:
due cappuccini sono riusciti a penetrare a Costantinopoli fin dal 1551,
seguiti, nel 1583, da alcuni gesuiti.
Nel 1587, al capitolo generale dell’Ordine
viene trattato il problema delle missioni
e il nuovo ministro generale, Girolamo da Polizzi,
decide una missione per Costantinopoli,
che la S. Sede affida ai Cappuccini.
Giuseppe da Leonessa, che da anni ha presentato domanda,
non è tuttavia tra i prescelti;
se non che, può improvvisamente entrare a far parte del gruppo,
in seguito alla sostituzione di Egidio di S. Maria,
che all’ultimo momento non è più in grado di partire.
Costantinopoli, antica capitale dell’Impero romano d’Oriente,
da un secolo è capitale dell’Impero turco
(l’ha conquistata nel 1453 il sultano Maometto II
sconfiggendo Costantino XI, l’ultimo imperatore,
caduto in combattimento con gli ultimi difensori: greci, genovesi e veneziani).
I turchi hanno lasciato però al loro posto il patriarca e i vescovi “orientali”,
cioè separati dalla Chiesa di Roma in seguito allo scisma nel 1094.
I vescovi cattolici sono stati invece colpiti e allontanati.
Tra i fedeli, inoltre molti vivono in schiavitù,
e altri sono isolati e dispersi intorno a chiese in rovina.
A Costantinopoli i missionari trovano dapprima alloggio nel quartiere di Pera,
riparano una cadente chiesa
e, soprattutto hanno un loro programma graduale:
assistenza ai cattolici in prigionia, ai malati,
collegamento con i gruppi cattolici occidentali
che sono a Costantinopoli per lavoro e commercio.
A Giuseppe da Leonessa è affidata, in modo particolare,
la cura dei numerosi cristiani tenuti prigionieri dai Turchi
e ad essi egli dedica tutto se stesso.
Una epidemia gli porta via però tutti i compagni,
eccetto fra Gregorio da Leonessa.
Spinto dal suo fervore egli comincia allora a predicare Cristo per le strade
e alle entrate delle moschee
e, con un’audacia a noi oggi incomprensibile, ma spiegabile per quei tempi,
con vari stratagemmi cerca di penetrare
nel palazzo stesso del sultano Murad III per parlargli.
In uno di questi tentativi però è arrestato,
imprigionato e condannato alla pena del gancio.
Per tre giorni infatti rimane sospeso,
con un uncino alla mano destra e uno al piede,
ad una trave alta su di un fuoco acceso
sopportando anche i dileggi e gli insulti della folla.
Successivamente è liberato ed espulso.
Segnato dalle stigmate del martirio,
torna allora in Italia a fare il predicatore itinerante,
accompagnato da qualche confratello;
e sempre a piedi, nello stile cappuccino (così può vedere il mondo
con gli occhi di coloro che a piedi vivono e muoiono).
Si impone ritmi quasi incredibili,
che sfiancano i suoi compagni di missione:
anche sei-sette prediche in un giorno
in luoghi deserti e anche distanti;
e, in particolare pochissimo riposo,
perché è importantissimo anche il colloquio
con la persona singola, la famiglia singola.
O con chi è condannato a morte
e lo vuole accanto a sé nel carcere,
per le ultime ore di vita.
In aggiunta, per i malati, si sforza di far sorgere piccoli ospedali e ricoveri;
a volte ci lavora anche con le braccia.
Combatte inoltre l’usura che dissangua le famiglie,
facendo nascere Monti di Pietà e Monti frumentari,
per il piccolo credito a tasso sopportabile.
Giuseppe da Leonessa attinge questo ardore dal Tabernacolo,
davanti al quale passa molte ore, anche notturne, in orazione,
e dal Crocifisso, che porta di continuo sul petto.
Uno dei mezzi principali da lui usati per il rinnovo della vita religiosa
è la pratica delle Quarant’ore, una specie di missione popolare.
Ad ogni ora d’adorazione segue una predica.
Alla fine delle Quarant’ore padre Giuseppe da Leonessa
innalza su una collina vicina al paese una croce a ricordo della missione,
croce che egli stesso porta sulle spalle.
Questo duro apostolato dura per ben ventidue anni,
continuamente nutrito e potenziato dalla preghiera e dalla penitenza.
Per il Giubileo del 1600 padre Giuseppe da Leonessa
si prepara con un anno di digiuno, di preghiere e di penitenze,
recandosi successivamente a Roma da Otricoli (Tr), dove si trova a predicare,
per lucrarne l’indulgenza.
Nel mese di ottobre 1611 predica per l’ultima volta a Campotosto (Aq).
È il 18, giorno della festa di san Luca.
Padre Giuseppe da Leonessa torna allora al convento di Amatrice,
dove era stato trasferito e dove è superiore un suo nipote,
appoggiandosi al suo bastone.
Dio, che gli ha risparmiato il martirio,
gli riserva una male incurabile che ben presto lo condurrà alla tomba.
Si reca a Leonessa alla fine del mese, restandovi circa dieci giorni:
è l’ultimo incontro con i parenti,
con i paesani, con la sua patria di origine.
Lungo la strada del ritorno ad Amatrice benedice la sua Leonessa
con parole che ancor oggi commuovono i suoi paesani.
Nel convento di Amatrice padre Giuseppe da Leonesa
celebra l’ultima santa Messa il 28 dicembre, festa liturgica dei santi Innocenti.
Il male peggiora di giorno in giorno, le forze gli vengono meno.
Vuole ricevere ogni giorno la comunione fuori della sua cella,
perché non ritiene opportuno che Gesù eucaristico entri nel suo povero tugurio.
Gli è diagnosticato un tumore e si tenta di operarlo:
è quello il suo secondo supplizio.
Il 2 febbraio è operato dal medico di Amatrice, Severo Canonico.
Una operazione inutile e dolorosa.
Giuseppe accetta, per ubbidienza, l’operazione con coraggio,
tuttavia rifiuta di essere legato, come suggeriscono i medici.
Come anestetico, infatti, lungamente si stringe al petto il crocifisso.
Il tre febbraio il chirurgo tenta un altro intervento
con la speranza di strapparlo alla morte; tutto risulta inutile.
Sorella morte lo chiama nel pomeriggio del sabato 4 febbraio 1612,
mentre Giuseppe da Leonessa invoca la Madre del cielo:
«Sancta Maria succurre miseris». Ha 56 anni.
La sua morte dà adito ad una sorta di gara tra le popolazioni di Amatrice,
ognuno vuole infatti accaparrarsi qualche sua reliquia:
da tutti è ritenuto “Santo”.
Il suo venerato corpo, per volontà dei maggiorenti della città,
è sottoposto ad uno speciale intervento di conservazione
ed è inumato nella chiesa conventuale di Amatrice.
È un santo assai popolare e conteso fra Amatrice e Leonessa,
di cui è stato nominato compatrono.
Tuttavia il popolo di Leonessa il 18 ottobre 1639,
approfittando del terremoto,
con fulminea e furtiva incursione,
perpetra il “sacro furto” rubando il corpo
che ora è venerato nel santuario eretto in suo onore
nella casa paterna che lo vide nascere.
Beatificato da Clemente XII nel 1737,
il 29 giugno del 1746, nella Basilica di san Giovanni in Laterano,
è elevato alla gloria dei Santi dal papa Benedetto XIV,
insieme a san Camillo de Lellis, suo contemporaneo e abruzzese come lui.
Nel 1950 Pio XII lo proclama patrono delle Missioni in Turchia, e il 2 marzo 1967, poi,
il papa Paolo VI lo proclama “Patrono principale” dell’Altopiano leonessano.
La festa liturgica in suo onore si celebra il 4 febbraio, giorno della sua nascita al cielo.
Foto: Nepote Ignazio, Supplizio di San Giuseppe da Leonessa, olio su tela (cm 155,0×112,0), 1740-1760. Inventario del patrimonio storico artistico della diocesi di Susa / beweb.chiesacattolica.it