Giovanni Paolo I visto da Morozzo
La missione apre gli orizzonti
Nel corso del tempo
l’approccio di Luciani
alle questioni missionarie
cambia ma resta sempre centrale
Giovanni Paolo I visto da Morozzo – Albino Luciani
venne consacrato vescovo in San Pietro
il 27 dicembre 1958 da Giovanni XXIII,
insieme a Charles Msakila,
destinato alla diocesi di Karema in Tanzania.
Nacque allora tra i due ecclesiastici
un’amicizia che stimolerà il futuro papa
a dedicare parte del suo cuore
e del suo lavoro alla Chiesa in Africa.
In particolare, Luciani concretizzerà
questa inclinazione spirituale
creando una missione
della diocesi di Vittorio Veneto
in Burundi,
con tre sacerdoti fidei donum,
su sollecitazione, nel 1962,
di monsignor André Makarakiza,
vescovo di Ngozi.
Va detto però che Luciani
da sempre teneva in gran conto
l’idea missionaria.
Aveva immaginato
di farsi lui stesso missionario.
E l’annuale Giornata delle Missioni
era per lui l’occasione
per ritornare ogni volta,
con riflessioni antiche e nuove,
su questo aspetto
della vita della Chiesa,
secondo una solida
comprensione tradizionale:
le missioni erano l’evangelizzazione
di anime e popoli
da condurre alla fede cristiana.
***
Giovanni Paolo I visto da Morozzo – Un documento
di Luciani è illuminante a questo riguardo:
la Lettera alla diocesi dopo il viaggio in Africa,
rivolta il 20 ottobre 1966
ai fedeli di Vittorio Veneto,
successivamente alla visita in Burundi
del 18-31 agosto,
una delle due da lui compiute
presso i sacerdoti diocesani in missione
(l’altra fu in Brasile nel 1975,
da patriarca di Venezia).
***
Giovanni Paolo I visto da Morozzo – La Lettera
mostra un approccio alla realtà burundese
tutto spirituale.
La politica, il colonialismo,
l’indipendenza recente,
non vi hanno spazio.
Luciani critica appena
“qualche leggera ventata di nazionalismo”
che investe la nazione da poco decolonizzata
e parla di due “gruppi etnici”
senza accennare ai rapporti tra hutu e tutsi.
Non è strano.
Nel 1965 si era già instaurata
una dittatura militare della minoranza tutsi,
in reazione alle stragi di tutsi
compiute dagli hutu
nel confinante Rwanda,
Paese per tanti aspetti gemello del Burundi.
Ma nel 1966 i burundesi
si sentivano ancora un Paese unito
e non immaginavano il cruento avvenire.
In questo senso è comprensibile
che Luciani non percepisca
avvisaglie del conflitto.
La Lettera consiste
in una appassionata descrizione
della vita religiosa e sociale dei burundesi.
Gli occhi sono quelli di un vescovo tridentino
che conta le anime, i sacramenti impartiti,
le succursali parrocchiali, la distribuzione
dei catechisti, con l’idea
di un’evangelizzazione sistematica.
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Giovanni Paolo I visto da Morozzo – Luciani
vive il primato della pastoralità:
«Anche in Burundi ho sentito propormi
le domande che circolano in tutto il mondo.
Il sistema delle zone di influenza missionaria
affidate a istituti missionari non è superato?
Non si sono i missionari
comportati troppo paternalisticamente
col clero indigeno?
[… E] i principi di padre Lebbe?
L’ardente missionario belga
naturalizzato cinese
ha infatti sostenuto:
a) la Chiesa non deve, non può
(in Cina, nel Congo, nel Burundi)
fare la figura di conquistatrice straniera
in terra conquistata o sottomessa;
b) non si leghino le sorti del cristianesimo
alle sorti della cultura europea;
c) si tenga per fermo che il clero autoctono
conosce a fondo il paese, la sua cultura,
la sua mentalità, la sua lingua
in tutte le sfumature, i suoi problemi
e che certe situazioni umane
le intuisce per istinto, perché nativo,
mentre gli altri non le possono penetrare […]».
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Giovanni Paolo I visto da Morozzo – «Quante domande!
Ed io rispondevo: non sono competente,
sono problemi più grandi di me.
Da poveruomo, però,
mi sembra di dovere dare questa risposta:
gli istituti missionari
hanno fatto tanto del bene,
ne stanno facendo, ne faranno ancora;
mi sembra leggerezza imperdonabile
quella di chi li proclama sorpassati
e getta semi di dubbio e di sconforto
in tanti giovani sacerdoti e studenti,
che hanno lasciato la famiglia
e la diocesi per un istituto missionario
solo per amore di Gesù Cristo e delle anime.
C’è enorme bisogno di braccia,
di preghiere, di mezzi;
c’è lavoro per tutti;
bisogna che gli istituti missionari continuino
sia pure con qualche correttivo e accorgimento…
“Dummodo Christus annuncietur”,
diceva san Paolo; diciamolo anche noi!».
***
Giovanni Paolo I visto da Morozzo – Luciani
non mette in discussione l’impianto
delle Chiese locali africane
ma lo concilia con la tradizione missionaria
del cattolicesimo.
Riconosce pienamente i diritti
delle Chiese indigene,
così come l’autorità dei vescovi autoctoni
sui missionari stessi.
Non condivide però le idee postconciliari
di chi esalta le Chiese indigene
contro il “vecchio” rappresentato dai missionari.
Rispetto pieno, allora,
per il cattolicesimo africano,
ma senza miti di Chiese vergini e rivoluzionarie,
senza esclusione dell’apporto di chiunque
e senza preferenze partigiane
né per gli autoctoni né per i missionari.
La Chiesa è unica
ed è la stessa in Veneto
e all’altezza dell’equatore,
il Vangelo è il medesimo per tutti,
la grazia si effonde sugli uni come sugli altri.
Ciò che occorre è l’evangelizzazione.
C’è lavoro per tutti
e non è opportuno escludere braccia utili
dal lavoro comune.
Solo importa che si evangelizzi:
“Dummodo Christus annuncietur”.
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Giovanni Paolo I visto da Morozzo – Lo stesso
approccio pragmatico ritorna
a proposito delle tradizioni e usanze locali.
L’inculturazione
non è certo respinta da Luciani
ma va ponderata e confrontata
con i valori cristiani, e però
senza affermare questi ultimi
in maniera prepotente e irrispettosa
di quanto esiste.
Il vescovo di Vittorio Veneto
porta l’esempio del fidanzamento,
che vede la ragazza obbligata
per convenzione sociale
a mostrarsi contraria
al matrimonio propostole, e soggetta
ad una lunga negoziazione tra famiglie
basata su ripetute offerte di doni
e consegne di oggetti e denari.
***
Giovanni Paolo I visto da Morozzo – Osserva Luciani:
«Tutto ciò è pittoresco,
ma è conforme al cristianesimo
ed a ciò che esso insegna
sull’altissima dignità della donna?
Ce lo siamo domandato insieme.
A prima vista,
a noi europei parrebbe di no
e si tenderebbe ad abolire e sostituire.
Ma siamo sicuri
di avere bene interpretato
queste usanze e le consuetudini?
Quanto più esse sono entrate
nell’anima del popolo,
tanto più si rivelano cosa delicatissima,
da studiare con grande rispetto.
Il concilio fa delle raccomandazioni
in proposito.
Per i laici: una volta convertiti
(in Cina, in Australia, nel Burundi)
“questa vita nuova devono esprimerla […]
nel rispetto delle tradizioni nazionali.
Devono perciò conoscere questa civiltà,
elevarla e conservarla e svilupparla
in armonia con le nuove condizioni,
e finalmente perfezionarla in Cristo” […]
Aver contato troppo
nell’impressione prodotta
dalla civiltà europea sugli africani
è stato un errore.
Alcuni si sono convertiti,
ma sono rimasti attaccati
anche alle pratiche di prima.
Altri, convertendosi,
hanno rinunciato al loro africanismo,
mettendosi contro certi valori tradizionali,
che, istintivamente, reputavano non cattivi.
Un dramma! […]
In conclusione: bisogna procedere
con grande tatto, rispetto e pazienza».
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Giovanni Paolo I visto da Morozzo – Gli appelli
e i messaggi rivolti da Luciani
ai fedeli di Vittorio Veneto
e poi di Venezia in occasione
dell’annuale Giornata delle Missioni
sono interessanti per l’evoluzione
della sua idea di missione,
debitrice del Concilio
e del magistero di Paolo VI.
Nei testi dei primi anni ’60,
Luciani esorta i fedeli a offrire risorse
e a impegnarsi in ogni modo
perché il cristianesimo non corra il rischio,
in fatto di numerosità,
di essere sconfitto da “pagani” e “infedeli”,
oppure dalle ideologie atee.
Scrive nel 1964:
«Si calcola che di fronte ad un pagano
che si converte ogni anno,
ci siano circa sessanta uomini
che nascendo vanno ad aumentare
il numero dei pagani già esistenti.
Ed i popoli nuovi?
Dicono che – quanto a ideologia –
essi saranno di chi se li prende per primo,
ma che noi abbiamo
troppo pochi missionari e denari
per prenderli prima che arrivino gli agenti
inviati dalla Cina
con i portafogli gonfi di banconote».
***
Giovanni Paolo I visto da Morozzo – In seguito
appaiono testi d’intonazione più conciliare.
Il Vaticano II determina in Luciani
un significativo cambiamento di prospettiva
nella sua identità di vescovo.
Non nel senso
di fargli sottolineare maggiormente
la Chiesa locale, particolare,
come ad altri presuli accade di fare,
ma al contrario nel senso
dell’apertura universale,
con una forte presenza di temi della carità.
Una carità che per lui non era propriamente
il concetto di promozione umana
poi teologicamente in voga negli anni ’70,
quanto piuttosto, secondo tradizione,
il principio cristiano della compassione
e dell’aiuto al povero, la cui necessità
aveva constatato di persona
vedendo nel 1966
le condizioni di vita dei burundesi.
Scrive nel 1967:
«In Olanda nel primo anno di vita
muoiono 18 bambini su 1000;
in Italia circa 30 su 1000;
in Burundi 230 circa su 1000,
come da noi prima di Napoleone!
Il guaio è che, nel Burundi,
l’ecatombe dei bimbi continua
anche negli anni seguenti:
appena un bimbo su due
raggiunge l’età di cinque anni.
Cause?
Le gastroenteriti infettive,
che mietono numerose vite di piccoli
nei periodi del maggior caldo;
il morbillo; lo strapazzo delle madri
e il pessimo sistema di alimentazione
in uso per i piccoli […]
Altra malattia, la malaria.
Ci sono le paludi, c’è il caldo
e c’è la famosa zanzara
del genere Anopheles,
alla cui puntura difficilmente si scappa […]
Altra malattia endemica è la lebbra,
la quale non è così contagiosa
come si credeva una volta
e tuttavia è diffusa.
Ho già scritto altrove
sui lebbrosi di Ngozi e di Bururi;
cose che fanno piangere».
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Giovanni Paolo I visto da Morocco – Dopo il 1968,
Luciani sarebbe passato più volte
a deprecare lo spreco di tempo e di energie
dovuto alle discussioni interne alla Chiesa,
laddove la contestazione ecclesiale
era vista come una perdita
per la missione primaria della Chiesa,
ossia per l’evangelizzazione.
Scrive nel 1969: «Come molti di voi,
ho seguito anch’io alla televisione,
il viaggio di Paolo VI in Uganda […]
La conclusione che veniva, immediata,
necessaria – chiudendo il televisore –
non poteva essere che questa:
muoversi, fare qualcosa per l’Africa,
per le missioni in genere,
subito, in questi momenti privilegiati!
Le chiese di quassù!
Ma vi sono preparate bene? […]».
***
Giovanni Paolo I visto da Morocco – «Un po’
di confusione si mescola talora
all’impegno fervoroso!
E preziose energie si sprecano!
Ci sono, ad esempio,
nella Chiesa e per la Chiesa,
doni gerarchici e carismatici.
Si dovrebbero utilizzare gli uni
e gli altri sino in fondo.
Invece?
Qualcuno perde tempo e lo fa perdere,
esaltando esageratamente i carismi
e deprezzando la gerarchia.
Altri si vanno chiedendo:
primato papale
o collegialità vescovile?
Del tutto oziosamente,
perché il concilio afferma
che la collegialità suppone
e completa il primato […]
Altra domanda:
obbedienza “dialogata”
o “non dialogata”?
Quella di una volta o nuova?
Si discute e si ridiscute…».
Roberto Morozzo della Rocca
(storico, Università degli Studi Roma Tre),
«La missione apre gli orizzonti»,
in “Luoghi dell’Infinito”,
Mensile di Itinerari Arte e Cultura
di “Avvenire”,
settembre 2022, n. 275, pp. 54-57.
Foto: Giovanni Paolo I, in
“S.S. Giovanni Paolo I – Albino Luciani” /
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