Cultura che diventa esibizione
Il nostro tempo, che usura sorprendentemente ogni concetto e ogni idea con straordinaria facilità, ha dilatato con noncuranza alcune parole e il più stretto significato che da quelle parole poteva derivare. Facciamo il caso della parola «cultura» e del termine «intellettuale»: e prendiamoli di per sé come termini che designano, uno tutto ciò che riguarda la conoscenza e le scelte filosofiche, l’altro come interprete di questa conoscenza e come portatore di ipotesi filosofiche. Potremo allora osservare che questi termini hanno attirato su di sé anche altre funzioni e altri significati, tanto da turbare persino l’ordine grammaticale che li riguarda.
È il caso allora di affermare che dentro la parola «cultura» si annidano tantissimi elementi, non proprio culturali, e nella parola «intellettuale» moltissimi significati, tanto da tratteggiare la figura dell’intellettuale in mezzo a diversissime funzioni, che spesso lo trascendono e lo dimezzano.
Uno studio approfondito della figura dell’intellettuale contemporaneo ce lo offre Massimo Romano, con un libro che è un itinerario proficuo per visitare la degradazione e l’incrinatura della figura dell’intellettuale nel mondo contemporaneo, destinato, il libro, alle scuole superiori. Il titolo: «Gli stregoni della fantacultura», edito da Paravia nella collana «Percorsi».
Romano ha voluto dimostrare, in effetti, che quell’itinerario è passato attraverso diverse esperienze, culturali e politiche, sociologiche e ideologiche, fino al punto cruciale dei nostri anni, in cui non si sa bene che cosa rappresenti e che funzione abbia, nel mondo moderno, l’intellettuale.
Lo studioso torinese prende a prestito della sua dimostrazione lo scrittore Moravia e dice che «Moravia è forse il più tipico esemplare di stregone fantaculturale, una nuova specie di intellettuale che sta imperversando nel costume della società italiana, secondo le esigenze della moda consumistica e del mercato editoriale». E ciò è tanto vero se si osserva da vicino questo costume, che impegna Moravia tutte le volte che si tratta di fare il punto su una situazione, vuoi politica, sociale, artistica, sociologica, ecologica, pubblicitaria: fino ad affidare alle sue affermazioni l’oscuro senso oracolare per cui il mondo di domani dovrà tenerne conto, se non vorrà perdersi.
Ma perché si è giunti a questo punto? E in che misura hanno valore queste osservazioni e queste profezie, dette da un tipico rappresentante della cultura, che per eccesso di zelo può anche prendere abbagli madornali?
Si è giunti a questo stato di cose per il fatto che la stessa cultura si è deteriorata e che la figura di un intellettuale come Moravia viene investita di compiti talmente complicati e diversi che superano persino la sua duttilità e lo costringono a sapere tutto, a interessarsi di tutto, a essere sempre presente in tutto.
Romano ci indica le varie tappe del percorso sin qui seguito da quella degradazione e sviluppo, partendo proprio dagli anni del dopoguerra, quando insieme con la ricostruzione si è presentata una nuova società, non più legata a un mondo in lento e pacato sviluppo, ma legata a doppio filo con la trasformazione galoppante della storia e della cultura: e ci indica come alcune fasi e alcune figure della cultura più in vista siano state le cause prime e non marginali di una così arrembante trasformazione. Vittorini dunque come intellettuale impegnato a discernere tra cultura cittadina e cultura rurale, Gramsci teso a recuperare alla storia una cultura popolare sempre tenuta in soggezione, Pasolini come ribelle alla cultura industriale, fino ai più tipici rappresentanti della contestazione sessantottesca, filtrata attraverso movimenti che mentre rifiutavano le esperienze del neorealismo, tentavano di radere al suolo anche le forme più classiche e tradizionali della nostra cultura.
I risultati, ovviamente, sono sotto i nostri occhi: integrazione dopo l’eversione per i portabandiera della neoavanguardia, un vuoto culturale che difficilmente potrà essere colmato dagli stessi intellettuali, infine una sottile utopia, che porta a un bivio critico e difficilmente emendabile, respingendo in incunaboli funzioni e destini dell’intellettuale.
Tanto che la domanda ultima è appunto quella che riconduce alle posizioni eterne della cultura: creazione o prassi, distacco dalla storia o immersione nelle fasi mondane, ragione o sentimento? Sono domande che rimbalzano anche oggi, senza trovare risposta. O almeno alcuni se le pongono, nel mentre che la società letteraria macina e stritola i suoi miti cangianti.
Il fatto è che la figura dell’intellettuale si è venuta incrinando e forse è un bene: non più nella sua torre d’avorio, e neppure nelle strade con i ribelli di giornata, ma una seria meditazione sulle proprie funzioni, con la speranza che anche nell’universo dell’intellettuale finalmente si assesti la vera coscienza di una cultura consapevole.
Giancarlo Pandini, «La cultura che diventa esibizione», in “Avvenire”, giovedì 16 marzo 1978, p. 9.
Foto: Copertina de «Gli stregoni della fantacultura» di Massimo Romano /amazon.de