Bernardo da Corleone (1605-1667) – Religioso dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini – 12 gennaio
Bernardo da Corleone. Nasce a Corleone (Sicilia) il 6 febbraio 1605.
Battezzato con il nome di Filippo, è il quinto di sette figli di Leonardo Latino,
un calzolaio e conciatore di pelli, e di Francesca Sciascia, casalinga.
La sua è una famiglia molto religiosa
e la sua casa è comunemente definita “casa di santi”
soprattutto per la carità del padre,
che non esita a portare a casa gli straccioni e i poveracci incontrati per strada,
per ripulirli, rivestirli e sfamarli.
Molto virtuosi sono anche i fratelli e le sorelle.
Su questo terreno così fertile
il giovane Filippo apprende presto dal padre l’amore al lavoro e la carità verso i poveri;
dalla madre, terziaria francescana, il buon esempio nella pratica degli atti di pietà.
Sono molti infatti coloro che testimoniano di aver visto il giovane che
«andava con li bertuli in collo cercando limosina per la città
in tempo d’inverno per li poveri carcerati»,
e questo «senza virgugnarsi».
Filippo, inoltre, tratta bene i suoi dipendenti,
dal momento che gestisce una bottega di calzolaio, nel solco del mestiere paterno.
A chi gli parla di matrimonio,
Filippo mostra con una certa fierezza il cingolo francescano
che tiene esposto abitualmente nella sua bottega, assieme alla spada,
e risponde che la sua sposa è «lu curduni di san Francesco».
La spada ricorda il suo impegno come “sciurtiere”
con la facoltà cioè di girare di notte, armato, per le vie della città a protezione dei cittadini,
secondo una consuetudine e un privilegio che Corleone
mantiene anche durante la dominazione spagnola.
Quello di maneggiare la spada non è un hobby per Mastro Filippo
ma un vero e proprio “mestiere” o “esercizio”,
come opportunamente annotano i primi biografi.
Ecco perché quando si tratta di difendere i poveri e gli oppressi,
Filippo non esita a servirsi della sua bravura
che gli procura il titolo di “prima spada di Sicilia”.
Così, difende una giovane insidiata da due soldatacci
e protegge mietitori e i vendemmiatori defraudati del frutto del loro lavoro,
dopo una giornata di sudori, dalla soldataglia di stanza in Corleone.
Il maneggio della spada contribuirà
a dare l’aria di mito alle imprese giovanili di Filippo Latino,
facendolo passare, il che è falso, per un attaccabrighe di piazza
e ad avvolgere il personaggio in una sorta di ragnatela romanzesca.
Che mastro Filippo si accenda come un fiammifero, se provocato,
non è comunque un mistero per nessuno in Corleone:
«nissunu difettu ci era nutato si non la caldizza ch’avia in mettiri manu a la spata
quando era provocatu”.
I testimoni sono comunque tutti concordi nel deporre
che se mastro Filippo mette mano alla spada
è «per difendere qualche vessazione del prossimo»
e «per aggiutare qualche persona».
L’episodio del duello memorabile con Vito Canino,
da collocare con molta probabilità nell’estate del 1626,
è certamente da considerare decisivo nella giovinezza di Filippo Latino
e costituisce un nodo fondamentale nella biografia di Bernardo da Corleone,
ma va tuttavia letto nel contesto storico in cui è maturato
e deve essere alleggerito da quell’alone cupo e romanzesco
con cui è passato nell’agiografia.
Prima dello scontro fatale con Vito Canino,
che ha vasta risonanza popolare, non solo a Corleone,
mastro Filippo ha avuto delle scaramucce con un non meglio identificato “Vinuiacitu”
(l’ossimoro “vino aceto” forse rende bene ai contemporanei l’entità del personaggio)
che se la cava con due dita ferite.
Vito Canino, il commissario venuto da Palermo a Corleone
per carpire il primato della scherma a Filippo,
in realtà è un sicario mandato da “Vinuiacitu”
allo scopo di assassinare il calzolaio, per rifarsi dell’umiliazione subita.
Nel duello, il sicario ci rimette un braccio, rimanendo inabile per sempre.
Il timore della vendetta e delle conseguenze di quel gesto
inducono Filippo a rifugiarsi nel convento dei cappuccini,
dove pian piano, nel corso di otto lunghi anni, matura una autentica vocazione religiosa.
Chiede perdono al ferito, lo aiuta economicamente e moralmente,
fino al punto che i due divengono amici carissimi.
Deciso ad abbracciare la vita religiosa,
chiede di poter entrare nell’Ordine cappuccino,
dove è ammesso dopo non poche perplessità da parte dei superiori.
Il 13 dicembre 1631, veste nel noviziato di Caltanissetta il saio dei cappuccini,
con il nome di frate Bernardo da Corleone.
Con animo risoluto Bernardo da Corleone affronta le austerità del noviziato
per spogliarsi completamente dell’uomo vecchio
e incominciare una vita nuova di penitenza e di santità.
La sua totale sottomissione alla volontà dei Superiori
e la mortificazione che gli infligge il maestro,
finiscono per domare il suo carattere, rendendolo docile e remissivo,
indirizzandolo verso le altezze della preghiera
e della contemplazione nei mistici slanci di unione con Dio.
B ernardo da Corleone soffre molte tentazioni e scoraggiamenti
da parte della propria natura e dello spirito maligno, che gli compare spesso;
ma sa superarli bravamente con la fiducia nel Signore
e con le dure penitenze che infligge al suo corpo, che chiama fratello asino.
La forma di vita ascetica intrapresa risolutamente nel noviziato
che si compendia nel trinomio: preghiera, mortificazione, ubbidienza,
è regola costante di tutta la vita religiosa di Bernardo da Corleone
trascorsa nei diversi conventi della Provincia monastica,
dove è destinato nei cambiamenti capitolari:
a Bisacquino, Bivona, Castelvetrano, Burgio, Partinico Agrigento,
Chiusa, Caltabellotta, Polizzi e forse a Salemi e Monreale,
ma è difficile delineare un quadro cronologicamente esatto.
L’ufficio quasi esclusivo di Bernardo da Corleone
è quello di cuciniere o di aiutante cuciniere.
Ma egli sa aggiungere la cura degli ammalati
e una quantità di lavori supplementari per essere utile a tutti,
ai confratelli sovraccarichi di lavoro e ai sacerdoti lavando loro i panni.
Un intarsio di fatti e di detti,
profumato da eroiche, per non dire incredibili, penitenze e mortificazioni
formano la trama oggettiva e rilevante della sua fisionomia spirituale.
Le testimonianze dei processi diventano un racconto splendido
di caratterizzazioni particolari della sua personalità dolce e forte come la sua patria:
«Sempre ci esortava ad amare Dio e a fare penitenza dei nostri peccati».
«Stava sempre intento nell’orazione…
Quando andava alla chiesa, banchettava lautamente nell’orazione e unione divina».
Si ferma volentieri di notte in chiesa perché – come egli spiega –
«non era bene lasciare il Santissimo Sacramento solo;
egli li teneva compagnia finché fossero venuti altri frati».
Trova tempo per aiutare il sacrestano,
per restare più vicino possibile al tabernacolo.
Contro il costume del tempo egli usa fare la comunione quotidiana.
Tanto che i superiori negli ultimi anni di vita,
prostrato per le continue penitenze,
gli affidano il compito di stare solo a servizio dell’altare.
Le principali devozioni,
nelle quali profonde i palpiti del suo cuore innamorato di Dio,
oltre quella della SS. Trinità,
sono il Crocifisso, l’Eucaristia e la SS. Vergine.
In seguito al capitolo celebrato il 29 gennaio 1653,
con l’elezione a provinciale del padre Ludovico da Palermo,
fra Bernardo da Corleone è destinato a far parte
della variegata e numerosa comunità cappuccina del convento di Palermo,
composta da cento religiosi stabili più quelli in transito e i forestieri,
trascorrendovi gli ultimi quindici anni della sua vita.
Il giorno dell’Epifania del 1667 Bernardo da Corleone si ammala:
ricevuta l’ultima benedizione con gioia ripete:
«Andiamo, andiamo»,
e s’incontra con sorella morte alle 14 di mercoledì 12 gennaio 1667,
ad appena 62 anni.
Prima della sepoltura devono cambiare per ben 9 volte la sua tonaca,
perché tutte sono fatte a pezzettini dai fedeli che vogliono avere una reliquia.
È proclamato beato nel 1768 da Clemente XIII
e canonizzato da san Giovanni Paolo II nel 2001.
Foto: Ambito Salentino, San Bernardo da Corleone, olio su tela, 1700-1749,
Inventario dei beni storici e artistici della diocesi di Ugento,
Santa Maria di Leuca / beweb.chiesacattolica.it