Baruc – Bar 5,1-9 – Domenica II di Avvento C
Baruc. In Israele, la donna a cui moriva il marito o un figlio indossava gli abiti del lutto, si copriva il capo con un velo. Affranta per il dolore si sedeva per terra, non preparava il cibo, non si lavava e non si ungeva di profumi. Così manifestava il suo dolore.
La Prima Lettura di oggi paragona la città di Gerusalemme a una vedova affranta alla quale, con brutale violenza, sono stati strappati dalle braccia i figli: siede sconsolata, ricoperta della veste di lutto e rifiuta ogni parola di conforto.
Il riferimento è a uno degli eventi più drammatici della storia d’Israele: la distruzione della città santa, la devastazione del suo territorio e la deportazione dei suoi abitanti. Come una mamma, Gerusalemme ha visto i suoi figli allontanarsi in catene, sospinti da soldati crudeli. Era convinta che non li avrebbe mai più rivisti.
Passano molti anni – forse cinquanta – e un giorno Dio fa sorgere fra gli esiliati un profeta incaricato di recare un messaggio di gioia a colei che un tempo «era la grande fra le nazioni, la signora tra le province» e che ora «è divenuta come una vedova» (Lam 1,1).
Questo messaggio, ricordato nella Prima Lettura di oggi, è tratto dal composito libro del profeta Baruc, che la tradizione ritiene sia stato il segretario del profeta Geremia, ma che molto probabilmente è vissuto assai dopo.
Baruc dice a Gerusalemme: Gerusalemme, è finito il tuo lutto! Deponi gli abiti laceri, avvolgiti di un manto splendente, il Signore sta per porre sul tuo capo un diadema di gloria: «Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivestiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre» (v. 1).
Non si è mai visto una vecchia avvizzita ringiovanire e tornare a essere una ragazza stupenda e incantevole. Eppure con Gerusalemme questo accadrà – dice Baruc -su di essa risplenderà «la gloria che viene da Dio» (v. 1).
Si badi bene: non la gloria che noi pensiamo di poter dare a Dio (come se Egli avesse bisogno dei nostri applausi), ma la gloria che viene da Lui. È la manifestazione del suo amore mediante il suo intervento a nostro favore. Questa è la sua gloria: la vita dell’uomo.
La trasformazione del lutto in gioia – dice Baruc – sarà sotto gli occhi di tutti. Dio manifesterà lo splendore della Gerusalemme rinnovata a ogni creatura sotto il cielo e questo sarà il segno che nulla è impossibile per il suo amore.
Le immagini con le quali è descritta la nuova situazione di Gerusalemme resteranno definitivamente inserite nella letteratura biblica e consacrate poco più tardi dalla letteratura apocalittica Vestirsi con splendore di gloria, quella gloria che, fin dal tempo dell’esodo, fu identificata con Yahveh; cingersi il manto di giustizia, immagine reale che garantisce un perfetto vivere dei suoi cittadini fra loro e nei confronti di Dio; coronata di gloria eterna, che le tributeranno tutti i popoli per sempre, contemplando il suo regno di verità, di giustizia e di pace.
Dato che tutto è nuovo, Dio non poteva non dare a Gerusalemme un nome nuovo, sintesi della sua nuova situazione: «Pace della giustizia e gloria della pietà» (v. 4).
Per un semita il nome non è una semplice designazione convenzionale, è sempre intimamente legato alla persona, s’identifica addirittura con chi lo porta. Cambiare il nome a qualcuno indica l’attribuzione di una nuova personalità (Gn 17,5).
Gerusalemme riceve dunque nomi nuovi che indicano il suo destino: «Pace della giustizia», ossia diverrà il luogo dove regnerà la vera pace, non quella apparente che è solo oppressione legalizzata, ma quella che è frutto della giustizia, cioè della realizzazione del progetto di Dio; e «gloria della pietà», perché la sua fama non le deriverà dal prestigio politico o dai successi militari, ma dalla sua pietà, cioè, dalla fedeltà al suo Dio.
In altre parole, Gerusalemme sarà abitata da uomini che vivranno al massimo grado l’essenza della loro personalità, il loro essere relazionale. In relazioni perfetta fra loro (giustizia), godranno della massima armonia fra loro (pace), saranno in perfetta relazione con Dio (pietà) e vivranno la vera religiosità, la presenza di Dio sperimentalmente in mezzo a loro (gloria).
Con un triplice imperativo, forzando i tempi con la sua ansia di salvezza, Baruc continua: Gerusalemme, non stare più seduta nella polvere della terra, corri veloce fin sulla cima del monte, volgi lo sguardo verso oriente e contempla i tuoi figli riuniti da occidente ad oriente. Li hai visti allontanarsi a piedi, umiliati e percossi dai nemici, ora «Dio te li riconduce in trionfo come sopra un trono regale» (vv. 5-6).
È il miracolo operato dal Signore. Dio ha deciso inoltre di rendere piano ogni monte e di colmare ogni valle in modo che gli israeliti possano ritornare dalla loro madre, senza fatica. Anche gli alberi che producono resine odorose piegano i loro rami per fare ombra e proteggere dai raggi del sole il gruppo dei deportati che ritorna. Dio stesso li guida, come ha accompagnato i loro padri quando uscivano dall’Egitto (v. 7-8).
Il versetto finale ripropone l’azione di Dio, aureolandola di motivazioni: «Perché Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui» (v. 9).
Proviamo ora a riconsiderare il messaggio di Baruc, filtrandolo attraverso la nostra quotidianità.
Baruc sollecita a stare «in piedi sull’altura» e a puntare lo sguardo verso oriente.
Gerusalemme, da quel colle, ha visto uno spettacolo tragico, indimenticabile: i propri figli umiliati, strattonati brutalmente dai soldati di Nabucodonosor e trascinati in catene verso Babilonia, a oltre mille chilometri di distanza.
Baruc può sembrare un pazzo visionario. O, addirittura, un sadico che trova piacere a frugare in una ferita ancora aperta. O, più prosaicamente, si ha l’impressione che si diverta a prendere in giro la gente convocandola su quell’altura della vergogna.
Infatti laggiù, per quanto si guardi, non si muove proprio nulla, all’orizzonte non compare alcun segno. Deserto all’infinito. Nessun segnale incoraggiante. Lì vicino, il Tempio rimane un cumulo di rovine. E il popolo continua a essere privato della terra e del re. Tutto allo sfascio.
E allora, che profeta è Baruc, e che senso ha il suo messaggio provocatorio?
È un profeta che riesce a vedere diverso e incoraggia gli altri a vedere ciò che non c’è ancora. Indovinare la luce nel buio più fitto, intuire la ricostruzione nel caos della devastazione, scorgere una presenza nella solitudine agghiacciante del deserto, far esplodere la gioia nel pieno di una tragedia.
No. Baruc non si diverte a prendere in giro. Non architetta scherzi di cattivo gusto.
A pensarci bene, il punto ad oriente verso cui Baruc sollecita a guardare, non è un punto geografico. Si tratta di puntare gli occhi in direzione di Dio. Di quel Dio capace di compiere «grandi cose» (Sal 126,2-3).
Sarebbe opportuno che anche noi ci recassimo su quell’altura. L’altura delle nostre rassegnazioni, stanchezze, delusioni, diagnosi realistiche, previsioni catastrofiche. Niente di nuovo all’orizzonte, salvo l’attesa del peggio. La solita realtà implacabile col suo peso schiacciante di male, tenebre, odio, violenza, assurdità. Per non dire della nostra realtà personale, meschina e soffocante, fatta di dimissioni, paure, compromessi, cui ci siamo assuefatti. Nessuna prospettiva ragionevole di miglioramento.
Ecco, se nel garbuglio di una realtà spietata riusciamo ancora a guardare in direzione di Dio, e soltanto in quella direzione, tutto è possibile. Il capovolgimento più radicale può realizzarsi oggi stesso.
Non accontentiamoci di veder arrivare sul nostro tavolo delle cose. Proviamo a sgranare gli occhi sul Dio che viene a liberarci dalla nostre schiavitù. Se il termine “salvezza” ci appare un po’ stantio, sostituiamolo pure con “liberazione”. Ma teniamo presente che l’impresa di liberazione risulta piuttosto impegnativa. Ed esige la nostra collaborazione, a cominciare dal desiderio di disfarci delle catene.
Si tratta – come dice Isaia – di raddrizzare strade, eliminare tortuosità, “inventare” itinerari di rettitudine e giustizia.
I colli da abbassare e i burroni da riempire non sono immagini poetiche. Nella nostra vita ci sono montagne di supponenza, autosufficienza, che vanno assolutamente spianate. Ci sono abissi vertiginosi di vuoto, insignificanza, stordimento, non-senso, che occorre riempire con qualcosa di autentico.
Già. Montagne e burroni. Cumuli di cose inutili e scarsità di cose essenziali.
Bisogna avere il coraggio di perdere, eliminare, tagliare il “troppo” che abbiamo, e cercare il “tutto” che ci manca.
Anche qui è questione di sguardo.
Foto: Gerani parigini in giardino / foto dal cellulare