Ascolta, Israele
Ascolta, Israele. Come purtroppo diverse volte avviene per i brani liturgici, la Prima Lettura di oggi è stata ritagliata dal capitolo 6 del Deuteronomio in modo non rispettoso dell’andamento originario. Nel suo tenore completo e primario il testo consterebbe avere due sezioni.
La prima va dal v. 1, escluso dalla versione liturgica, al v. 3. Essa è un invito a dare concretezza al «timore di Dio», cioè alla considerazione di Lui per quello che è nella sua divinità e autorità, attraverso l’osservanza di «tutte le sue leggi e di tutti i suoi comandi». Nessuna prescrizione divina deve essere trascurata, nessun giorno della vita può trascorrere senza la premura di custodirli. Tutto l’arco generazionale che un uomo può conoscere da se stesso fino ai suoi nipoti deve costituire anche la durata dell’osservanza.
Analizziamo alcuni elementi caratteristici di questa prima sezione.
«Temi il Signore, tuo Dio», un’espressione tipica della fedeltà all’alleanza.
Non è l’invito ad avere paura: la paura presuppone un’immagine di Dio incompatibile con la rivelazione biblica. Temere Dio, significa porsi dinanzi a Lui in un atteggiamento di totale abbandono; vuol dire disponibilità ad accogliere docilmente la sua volontà di bene. «Ora so che tu temi Dio», dichiara l’angelo del Signore ad Abramo (Gn 22,12). Intendeva dire: “Ora so che tu sei fedele a Dio e gli obbedisci in tutto”. I timorati di Dio sono coloro che gli sono sottomessi e sono pronti a eseguire qualunque cosa Egli chieda, non perché paventano i suoi castighi, ma perché, essendo certi del suo amore, si fidano ciecamente di Lui. Più grossolanamente, il «Temi il Signore, tuo Dio» è un invito non al timore servile, ma a quello reverenziale, impregnato di vero amore, sottomissione libera e generosa alla volontà di Dio.
Altra caratteristica del Deuteronomio è quella di legare all’obbedienza alla Legge dei benefici concreti.
Il primo è la longevità (v. 2). Poco prima, la lunga vita era già stata promessa come conseguenza dell’osservanza del IV comandamento: «Onora tuo padre e tua madre come ti ha ordinato il Signore tuo Dio, affinché prolunghi i tuoi giorni e sii felice sul suolo che il Signore tuo Dio ti dona» (Dt 5,16).
«Ascolta, Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molti numerosi nella terra dove scorrono latte e miele» (v. 3)
Il secondo è la posterità numerosa, contenuto tipico delle promesse fatte ai patriarchi (Gn 12,2; 13,14-16; 15,5…) e prospettiva decisamente appetibile nella cultura dell’antico Medio Oriente.
Vita e discendenza sono così punto di convergenza delle aspirazioni umane e delle promesse divine. Dio desidera dare all’uomo ciò a cui egli tende.
L’ambiente storico entro il quale queste promesse si realizzeranno è la terra promessa, anche qui indicata come la «terra dove scorre latte e miele» (cfr. Es 3,8.17; 13,5; 33,3). L’immagine poetica rende assai bene l’impressione che si ha arrivando dal deserto di Giuda alle zone fertili della terra d’Israele. Per un popolo di nomadi abituati all’aridità e spoliazione del deserto una terra come quella a cui Dio conduceva non poteva che meritare una descrizione come quella che ormai ci è familiare.
La seconda sezione va dal v. 4 al v. 9, ma nella lettura liturgica odierna abbiamo solo i primi tre versetti di questo passaggio tra i più noti della letteratura biblica.
Al v. 4 è introdotto il celebre testo che ogni pio israelita ripete, anche oggi, tre volte al giorno: «Ascolta, Israele», costituito appunto da Dt 6,4-9.
Inizia con la professione di fede nell’unicità di Dio: «Ascolta, Israele: Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (v. 4).
Se Yahweh è l’unico Dio, deve essere amato con assoluta totalità: «Amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (v. 5).
Si noti che in altre formule in cui si richiede l’impegno dell’israelita il Deuteronomio implica solamente il cuore e l’anima (4,20; 10,12; 11,13; 26,16; 30,6.10), nel nostro testo, invece, anche le forze, cioè anche l’attività fisica dell’uomo. Risulta che l’amore a Dio si trova alla confluenza di volontà, intelligenza e impegno.
L’amore a Dio non va identificato con la pratica dei doveri religiosi, con la partecipazione agli atti di culto. Anche Israele per lungo tempo concepì il suo rapporto con il Signore in termini cultuali. Ritenne di poter ottenere i favori del suo Dio, offrendogli, come i pagani, sacrifici e olocausti.
Non è così che il Signore vuole che gli si manifesti amore. Sono violente le requisitorie dei profeti contro il ritualismo religioso: «Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero? – dice il Signore -. Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me… I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,10-20; cfr, Am 5,21.25).
L’amore che Dio si aspetta, infine, non è un fugace sentimento, un’emozione momentanea, una dichiarazione di affetto fatta con le labbra, ma l’adesione totale a lui nell’adempimento di ciò che gli è gradito.
Foto: n. 466 del mio profilo facebook