Ambascerie

Ambascerie – Attività (1453-1645) delle ambascerie turche a Venezia.
Dai problemi di confine al riscatto degli schiavi

Ambascerie. La capitale dell’occidente
che ricevette il maggior numero
di ambascerie dall’impero ottomano
fu certamente Venezia.

Qui ne giunsero circa 150
fra il 1384 e la fine
della Repubblica (1797).

Ben 140 di esse
si concentrarono
nei due secoli
dalla conquista turca
di Costantinopoli
all’inizio della guerra
di Candia (1453-1645).

L’elevato numero di missioni,
peraltro con caratteristiche
e finalità diverse,
si spiega, in pratica
per due motivi:

da un lato, con l’assenza
di una stabile rappresentanza
dell’impero nella città adriatica
(infatti soltanto
dalla fine del Settecento
i sultani cominciarono ad avere
rappresentanti fissi all’estero);

dall’altro lato,
con l’intensità
e, soprattutto
con la complessità
dei rapporti
fra i due Stati.

Tali rapporti, in pratica,
raggiunsero
la loro massima rilevanza
da quando i turchi
conquistarono la capitale
dell’impero bizantino

e, di conseguenza,
affermarono la loro posizione
di superpotenza mediterranea,

Infine, tali rapporti
si prolungarono fino a quando
la lenta ma progressiva decadenza
di Venezia spinse i turchi
a toglierle anche l’isola di Candia
e a trascurarla, dopo di allora,
nell’insieme della loro politica estera.

Le missioni a Venezia,
affidate di volta in volta
a personaggi
di diverso livello gerarchico
(non vi era, infatti,
una diplomazia «di ruolo»),
ebbero ciascuna una specifica finalità.

Finalità che variavano,
in conseguenza alle alterne vicende
dei rapporti politico-diplomatici
fra l’impero e la repubblica, o anche
con problemi e motivazioni occasionali,
come, ad esempio, la tutela di sudditi turchi
o interessi ed esigenze commerciali.

Ricevere un inviato
del Gran Signore,
come suonava allora
il titolo del sultano,
per Venezia, era in effetti
un onore e, allo stesso tempo,
un impegno.

Da un lato, un riconoscimento
della propria
importanza internazionale
ed un’occasione
al fine di consolidare
le proprie privilegiate posizioni
in Levante.

Dall’altro lato, costituiva
anche un onere,
non solo organizzativo
ma anche finanziario,
non trascurabile.

In effetti, l’inviato,
non solo era ospitato
dalla repubblica,
ma riceveva pure vesti,
per sé e per il seguito,
e, soprattutto un rilevante
donativo in contanti.

Si cercò dunque
in certi periodi
di evitarne l’arrivo
con troppa frequenza.

Un altro problema da fronteggiare
fu ovviamente l’accertamento
dell’autenticità della missione,
attestata di solito
da preventive comunicazioni
del bailo, ossia il rappresentante permanente
della Serenissima nella capitale ottomana.

Mentre la presenza dei baili
a Istanbul
e la loro attività
sono state dettagliatamente
e da tempo studiate,

le modalità e le vicende
delle missioni ottomane
sono rimaste invece
nell’ombra, come in genere,
tutti gli aspetti
della presenza orientale
in Occidente.

Per questo motivo, ma anche
per il suo merito intrinseco,
deve esser apprezzato
il recente contributo
di Maria Pia Pedani:

In nome del Gran Signore.
Inviati ottomani a Venezia
dalla caduta di Costantinopoli
alla guerra di Candia,
Venezia, Deputazione
di Storia Patria per le Venezie,
1994, pp. 249.

Per prima cosa si segnala
come particolarmente originale
l’analisi delle caratteristiche
degli inviati, frequentemente
non turchi ma greci
o anche ebrei o «rinnegati»,
di origine europea.

Inoltre, risulta interessante
la descrizione delle modalità
del viaggio
(in genere via terra
fino a una località
della costa dalmata).

E, infine, altra caratteristica
dello studio di Maria Pia Pedani
è il racconto dell’accoglienza
e permanenza nella città di Venezia:

in particolare, della cerimonia
di presentazione a palazzo ducale
ma anche dei doni ricevuti,
e del vario modo di porre a frutto
la permanenza a Venezia
degli inviati da parte delle autorità
o dei cittadini veneti.

«Tutta la storia
dei rapporti veneto-ottomani
– afferma M.P. Pedani –
si rispecchia nelle missioni turche
che giunsero a Venezia.

Ad esempio, ratifica di paci,
o anche fethname, ossia annunci
di vittorie militari,
o richieste minacciose
che annunciavano la guerra.

Inoltre le numerose proteste
a causa di episodi di violenza
o anche gli interventi
su questioni commerciali».

Fino ai primi anni
del Cinquecento
il rapporto con Venezia
fu soprattutto conflittuale.

Ma con la pace del 1503
(dopo quattro anni di ostilità)
l’impero veneziano d’oltremare
subì una riduzione.

Questa riduzione
toccò, tra l’altro,
Modone, Corone
e Santa Maura,
trasformandosi piano piano
«in una serie di isole
e città senza coesione».

In seguito, la dipendenza
degli interessi commerciali veneziani
dall’impero ottomano
fu ulteriormente sancita
dalla pace del 1540.

La partecipazione di Venezia
alla Lega santa
e dunque alla battaglia di Lepanto
(7 ottobre 1571) costituì, peraltro,
una momentanea inversione di tendenza,
causata dall’attacco turco a Cipro.

Alla perdita di Cipro
Venezia si rassegnò in seguito
con la pace del 1573,
cui fece seguito l’arrivo a Venezia,
come inviato della Porta,
dell’autorevole ebreo
Salomone Ashkenasi.

Le missioni ottomane
susseguitesi nel corso del tempo
vennero disposte
al fine di discutere
o comunque di trattare
questioni diverse.

Ad esempio,
vertenze e problemi
di confine (in Dalmazia),
questioni
e contenziosi commerciali.

Ma anche richieste di riscatto
e di liberazione
di prigionieri-schiavi turchi
e di riscatto
di schiavi cristiani
di proprietà ottomana.

In seguito all’espulsione
dei mori dalla Spagna,
decisa da Filippo III nel 1609,
alcune missioni perorarono
accoglienza per i fuggiaschi,
nel loro passaggio
verso l’impero ottomano.

Venezia era, infatti,
per essi
l’ultima terra cristiana
da attraversare.

Altre missioni, invece,
toccarono nello specifico
la spinosa questione
della pirateria degli uscocchi,
sempre più arditi e pericolosi
a cavallo
fra il Cinquecento e Seicento.

«Con la guerra di Candia
ebbe termine
la grande stagione
delle ambascerie ottomane
a Venezia.

Precisamente nel periodo
in cui cominciavano a intavolarsi
scambi diplomatici più fitti
fra la Porta e altri stati europei
quali l’Austria, la Polonia
o la Francia».

Per questi
e per altri governi
Venezia costituì peraltro
un luogo opportuno
di incontri diplomatici
con emissari turchi.

Ma anche, allo sesso tempo,
una tappa frequentemente utile
al fine di raccogliere informazioni,
di inviati europei
in viaggio verso Costantinopoli.

L’indagine, accurata
e ben documentata, della Pedani,
offre, inoltre, numerosi spunti
e notizie su una varietà di questioni
ancora poco note:
tra l’altro su figure di rinnegati
e sugli schiavi musulmani.

La caduta della Repubblica,
nel 1797, non consentì tuttavia
al sultano Selim III di attuare
l’intendimento di stabilire
a Venezia un rappresentante
diplomatico permanente.

Ciò avvenne, invece,
più tardi, nel 1834 e 1835,
a Parigi, Londra e Vienna
e poi in altre capitali europee
da Berlino a Torino.

Nelle vicende della «modernizzazione»
della politica e della diplomazia ottomana
la Serenissima, in pratica, non figura più;
essa appartiene ad una storia,
gloriosa per la repubblica e per l’impero,
ormai lontana nel tempo.

Salvatore Bono, «Dai problemi di confine
al riscatto degli schiavi.
Un recente volume
sull’attività (1453-1645)
delle ambascerie turche a Venezia»,
in “L’Osservatore Romano”,
giovedì 23 marzo 1995, p. 3.

Foto: José Moreno, Vista de la Punta
del Serrallo en Constantinopla, 1790 /
commons.wikimedia.org

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