Abramo – Gn 15,5-12.17-18 – II Domenica di Quaresima – C
Abramo. In ascolto della Parola
Abramo. Il sogno di tutti i nomadi del deserto è quello di possedere una terra
dove l’acqua non sia estratta dai pozzi, ma cada dal cielo;
una terra dove le piogge regolari e abbondanti
permettano di coltivare campi di grano, vigne e alberi da frutta;
una terra dove insediarsi stabilmente, assieme alla propria famiglia
e vivere in pace, «seduti e tranquilli sotto la vite e sotto il fico» (Mi 4,4).
Abramo è uno di questi nomadi: è partito da un paese lontano,
per anni si è spostato da un luogo all’altro come un viandante senza destino.
È vecchio e senza figli.
La sua vita sembra avviata a una conclusione fallimentare.
Un giorno però riceve la rivelazione del Signore
che gli promette ciò che egli ha sempre desiderato,
ma che non è mai stato in grado di ottenere:
una discendenza numerosa come le stelle del cielo (v. 5)
e una terra (vv. 7.19)
Come mai Dio prende l’iniziativa di fare queste promesse ad Abramo?
Perché a lui e non ad altri? È forse il migliore degli uomini della terra?
I rabbini del tempo di Gesù – convinti come sono
che il Signore concede favori solo a chi li merita –
sostengono che Abramo attira la benedizione di Dio
perché ha praticato e pratica la misericordia e la giustizia.
È una supposizione gratuita.
La Bibbia non accenna ad alcuna opera buona di Abramo
e presenta la chiamata e le promesse come un dono gratuito di Dio.
Abramo ha un unico merito, posteriore, non antecedente:
«credette al Signore che glielo accreditò come giustizia» (v. 6).
È la prima volta che nella Bibbia si dice
che un uomo ha avuto fede in Dio.
Il verbo che noi traduciamo con credere, in ebraico significa
appoggiarsi su un fondamento solido, stabile, sicuro.
Non indica un’adesione intellettuale ad alcuni dogmi,
ma una fiducia incondizionata concessa a una persona.
Un’immagine espressiva può essere quella della sposa:
quando ella afferma che «crede in suo marito»
intende dire che si fida ciecamente di lui, che ripone in lui
tutte le sue speranze, che gli affida il suo futuro e la sua stessa vita.
Abramo ode la voce di Dio e si abbandona fra le sue braccia,
gli dà credito, sicuro che non sarà tradito.
Questa fede «gli è accreditata come giustizia» (v. 6).
È un’affermazione importante, ripresa anche da Paolo (Rm 4,3; Gal 3,6).
Significa che Dio considera giusto Abramo,
non perché lo vede compiere azioni virtuose e meritorie,
ma perché egli stabilisce un rapporto giusto con il Signore:
si fida delle sue parole, della sua promessa, rimane saldo
anche quando le apparenze possono indurlo a pensare il contrario.
Abramo esigerebbe qualche informazione supplementare
a riguardo del paese oggetto della promessa divina:
«Signore, come potrò sapere che ne avrò il possesso?» (v. 8).
Il nostro brano descrive la risposta del Signore ad Abramo:
dopo ave fatto la sua promessa, Dio compie un rito per sanzionarla.
Presso i popoli antichi della Mesopotamia
i patti sono stipulati con un rituale di alleanza
che noi moderni stentiamo a comprendere,
perché sfugge alle nostre abitudini,
ma non del tutto scomparso ancor oggi tra i beduini.
Si prende un animale (un bue, un capretto o una pecora) e lo si squarta;
poi, coloro che si impegnano nel giuramento di fedeltà,
passano in mezzo alle due file di pezzi sanguinolenti di carne,
pronunciando questa formula:
«Se tradirò il patto, che io venga fatto a pezzi come questo animale!».
È curioso notare che in ebraico «stipulare un patto»
si dice letteralmente «tagliare un patto».
Il Signore ingiunge ad Abramo di uccidere degli animali
e di disporne le carni sui due lati di un sentiero;
poi, «il forno fumante, la fiaccola ardente»,
cioè Dio passa in mezzo alle vittime (v. 17).
Si noti bene: solo Dio compie il gesto dell’alleanza,
Abramo non passa fra le carni degli animali.
Ciò sottolinea l’assoluta gratuità dell’iniziativa divina.
I due contraenti non stanno sullo stesso piano.
La promessa di Dio è assolutamente incondizionata,
egli non pretende nulla in cambio. Sa di non poter chiedere nulla
perché i figli del patriarca saranno spesso increduli e infedeli.
Durante l’esodo arriveranno addirittura a pensare
che il Signore li abbia condotti nel deserto per farli perire (Nm 14,1-9).
Abramo. In ascolto della vita
Potremmo porre questa domenica all’insegna di un grande simbolo biblico,
quello dell’«epifania», cioè della rivelazione-manifestazione gloriosa
di Dio all’interno della storia umana.
L’epifania che ci svela la prima lettura di oggi
è affidata ad una sceneggiatura piuttosto surreale e carica di tensione.
Un tramonto cupo, un fuoco ardente in movimento,
alcuni animali squartati e divisi a metà,
Abramo colpito da un torpore oscuro che diventa terrore:
sono questi gli ingredienti del racconto del cap. 15 della Genesi
che costituisce il nostro brano.
In realtà si tratta di simboli chiari all’antico orientale,
destinati ad illustrare l’alleanza tra Dio ed Abramo
«nostro padre nella fede».
Dio affida il suo rivelarsi al segno del fuoco che evoca la luce,
una realtà che è fuori di noi ma che ci attraversa e ci specifica.
Non dobbiamo però trascurare di fissare la scena precedente,
allorché il Signore chiama fuori Abramo e lo invita ad alzare gli occhi
in direzione del cielo. «Conta le stelle, se riesci a contarle…
Tale sarà la tua discendenza» (v. 5).
Abramo, «credette al Signore che glielo accreditò a giustizia» (v. 6).
Ma fu facile per il vecchio patriarca credere nel Signore?
È vero che Abramo si lega al suo Dio in modo incondizionato,
gli dà totale credito.
Ma Abramo, non tiene ancora nulla in mano,
nonostante il lungo cammino percorso.
Lui è vecchio e la moglie Sara definitivamente sterile.
Avrebbe dovuto avere un figlio, ma per ora
deve accontentarsi del simbolo (il numero sterminato di stelle).
«Alla tua discendenza io do questo paese» (v.18), assicura Dio.
Ma, intanto, lui continua a essere nomade,
straniero nella terra che calpesta.
La terra, per lui, è soltanto promessa.
Ecco la prova per Abramo. Tenere in mano, non la realtà,
ma una Parola che gliela garantisce.
Della realtà Abramo non possiede neppure un piccolo anticipo.
Le sue mani rimangono vuote, come è vuoto il grembo di Sara.
Da un punto di vista umano, possiamo dire
che il vecchio patriarca ha una sola sicurezza:
ciò che ha lasciato alle spalle
(il proprio paese, la casa di suo padre).
Questo atteggiamento ha un nome preciso: fede.
«Egli credette nel Signore, che glielo accreditò come giustizia».
Anche per gli ebrei dell’Esodo,
tra l’Egitto che hanno abbandonato e la Terra promessa,
c’è di mezzo l’interminabile, arido deserto della prova.
Pure loro possiedono unicamente la certezza di ciò…
che non hanno più (pane a sazietà, cipolle).
Del «latte e miele», tanto decantati, neppure un minuscolo assaggio.
La fede, se è autentica, deve attraversare appunto il terreno aspro delle prova.
Come Abramo, dobbiamo camminare al buio,
accontentandoci di lanciare uno sguardo verso il cielo stellato.
Le mani, in un primo lunghissimo momento,
non servono a contare o pesare i doni promessi,
ma ad aggrapparsi a una Parola.
Per attualizzare questo messaggio
Un saggio indiano aveva un caro amico che abitava a Milano.
Si erano conosciuti in India, dove l’italiano era andato
con la famiglia per fare un viaggio turistico.
L’indiano aveva fatto da guida agli italiani,
portandoli a esplorare gli angoli più caratteristici della sua patria.
Riconoscente, l’amico milanese aveva invitato l’indiano a casa sua.
Voleva ricambiare il favore e fargli conoscere la sua città.
L’indiano era molto restio a partire,
ma poi cedette all’insistenza dell’amico italiano
e un bel giorno sbarcò da un aereo alla Malpensa.
Il giorno dopo, il milanese e l’indiano passeggiavano per il centro della città.
L’indiano, con il suo viso color cioccolato, la barba nera
e il turbante giallo attirava gli sguardi dei passanti
e il milanese camminava tutto fiero d’avere un amico così esotico.
Ad un tratto, in piazza San Babila, l’indiano si fermò e disse:
«Senti anche tu quel che sento io?».
Il milanese, un po’ sconcertato, tese le orecchie più che poteva,
ma ammise di non sentire nient’altro
che il gran rumore del traffico cittadino.
«Qui vicino c’è un grillo che canta», continuò, sicuro di sé, l’indiano.
«Ti sbagli», replicò il milanese. «Io sento solo il chiasso della città.
E poi, figurati se ci sono grilli da queste parti!».
«Non mi sbaglio. Sento il canto del grillo», ribatté l’indiano
e decisamente si mise a cercare tra le foglie di alcuni alberelli striminziti.
Dopo un po’ indicò all’amico che lo osservava scettico un piccolo insetto,
uno splendido grillo canterino che si rintanava
brontolando contro i disturbatori del suo concerto.
«Hai visto che c’era un grillo?», disse l’indiano.
«È vero», ammise il milanese. «Voi indiani
avete l’udito molto più acuto di noi bianchi…».
«Questa volta ti sbagli tu», sorrise il saggio indiano.
«Stai attento…».
L’indiano tirò fuori dalla tasca una monetina
e facendo finta di niente la lasciò cadere sul marciapiede.
Immediatamente quattro o cinque persone si voltarono a guardare.
«Hai visto?», spiegò l’indiano. «Questa monetina ha fatto
un tintinnio più esile e fievole del trillare del grillo.
Eppure hai notato quanti bianchi lo hanno udito?».
Ti ci vorrebbe un momento di attenzione per quelle voci
che hai dimenticato di ascoltare.
Quelle voci e quei canti che abbiamo dentro
e che ci parlano di cieli azzurri e aria pulita, di sogni e di batticuori,
di voglia di abbracciarsi e piangere insieme, di un Dio sconvolgente
che è venuto a chiederci di lasciarci salvare da Lui,
di fidarsi e di affidarsi a Lui.
Bruno Ferrero, «365 piccole storie per l’anima»,
Ed. Elledici, 10093 Leumann TO, 2008, pp. 83-84.
Foto: Abramo, conta le stelle, se riesci a contarle…
Tale sarà la tua discendenza (Gn 15,5) /
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