A occhio e croce

A occhio e croce

Significato

A occhio e croce
è un modo di dire
di uso comune in italiano
e significa “pressappoco”,
“all’incirca”, “su per giù”,
o anche “più o meno”,
“approssimativamente”.

Indica, dunque
una valutazione
o anche una misurazione
effettuata chiaramente
su criteri empirici,
approssimata
seppure con una certa precisione.

Origine di A occhio e croce

Questa espressione si trova,
espressamente,
per la prima volta ne

Il Malmantile racquistato,
poema eroicomico di Perlone Zipoli
(ossia pseudonimo anagrammatico
di Lorenzo Lippi), colle note di Puccio Lamoni
(ossia anagramma di Paolo Minucci) e d’altri,
Stamperia di Francesco Moücke, vol. I,
Firenze 1750, III,12, p. 241:

«Disse Amostante, visto il caso strano,
A Noferi di casa Scaccianoce:

Per Ser Lion Magin di Ravignano,
Che il venga a medicar, corri veloce:
Io dico lui: perché ce n’è una mano,
Che infilza le ricette ad occhio e croce;
O fa sopr’a all’infermo una bottega,
E poi il più de le volte lo ripiega».

Nelle note (Ivi, p. 241),
il Minucci, dapprima,
chiosa così il racconto

«Amostante, veduto
lo stravagante accidente,
ordinò a Noferi Scaccianoce
(che vuol dire Francesco Cionacci)
che andasse per Ser Lion Magin
da Ravignano (che vuol dire
Giovann’Andrea Moniglia)

e facesse venire lui medesimo,
che è un valent’uomo:
e non è come qualcuno,
che non sa dove s’abbia la testa:
e che invece di medicare un infermo,
il più delle volte l’ammazza
colle sue spropositate ricette».

Poi passa a chiosare la frase
che infilza le ricette
ad occhio e croce:

«Si dice anche a occhio e voce.
Ossia fa le ricette senza regola,
ovvero senza considerazione
o fondamento.
Opera cioè senza scuola
o riprova…» (Ivi, p.242).

Infine, spiega così
l’espressione A occhio e croce:

«È un termine certamente meccanico.
Si dice soltanto “fare una cosa
ad occhio e croce”: e questo detto
deriva dal vero fatto: perché le cose
che si fanno a occhio, per lo più
non tornano mai in maniera esauriente
ed a giusta misura.

E similmente “farle a croce”
significa farle senza alcun riguardo:

poiché si fa la Croce assai facilmente,
e, come si dice, a occhi chiusi:
non essendo altro la Croce
che un attraversamento di due linee,
senza attendere, che esse linee
vengano ad attraversarsi
ad angoli retti e ottusi» (Ivi, p. 242)

Girolamo Gargiolli
(L’arte della seta in Firenze.
Trattato del secolo XV, G. Barbèra Editore,
Firenze 1868 Dialogo IV, p. 178,
fa risalire invece l’origine
della locuzione “A occhio e croce”
al linguaggio dei tessitori.

Dopo aver ricordato, infatti,
che quando si tesse l’ordito
vi sono due verghe
che servono a tenere in croce i fili
scrive espressamente:

«Bisogna dunque badare
che le verghe non si sfilino
perché si scrocerebbe la tela.

E quando si perda la croce,
né si possa riprenderla dai licci
per essersi strappata la tela dietro le verghe,

allora si ripigliano i fili a occhio e croce
e si rimettono in tirare
ripigliando ogni portata,
filo per filo,
e si rinverga di nuovo la croce,
che fu svergata.

E facciamo questo a occhio e croce,
perché que’ fili si riprendono a occhio,
e non per regola
come si farebbe nell’ordire la tela».

Foto: Cartolina dal mondo /
archiportale.com

Lascia un commento