Mt 10-37-42

Mt 10-37-42 – XIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

 

Contesto e Primo Commento

Mt 10-37-42 – L’ossatura del Vangelo secondo Matteo
è data da cinque grandi discorsi di Gesù
(capp. 5-7: Discorso della Montagna; 10: Discorso
missionario; 13: Insegnamento in parabole;
18: Carta della comunità; 24: Discorso escatologico).

Il Vangelo odierno costituisce la conclusione
del secondo discorso, chiamato «missionario»
perché inizia con la chiamata e l’invio dei Dodici
e contiene una serie di indicazioni e di avvertimenti,
un vademecum cui riferirsi nella missione.

Il brano proposto dalla liturgia si compone
di due minuscole unità: i vv. 37-39 richiedono
la preferenza assoluta per Cristo, da anteporre
agli stessi affetti familiari; i vv. 40-42 concludono
il discorso e creano l’equipollenza tra Gesù
e coloro che sono inviati nel suo nome,

cosicché accogliere loro
è come accogliere lo stesso Gesù.

La continuità delle due parti è ravvisabile
nella persona di Gesù, che, sotto forma
di pronome personale o di aggettivo possessivo
a lui riferito, è richiamata non meno di 12 volte
nello spazio di pochi versetti.

«Chi ama padre o madre più di me non è degno di me;
chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me;
e chi non prende la propria croce e non mi segue,
non è degno di me» (vv. 37-38)

Mt 10-37-42 – Inizia così il Vangelo di oggi
e inizia presentando, in tutta la loro durezza,
le esigenze della sequela.

Vengono richieste rinunce
di una radicalità inaudita
e, come se non bastasse,
ognuna di esse è accompagnata
da una severa e drastica dichiarazione,
scandita come un ritornello:
«non è degno di me!».

Nessun rabbino ha mai preteso tanto
da chi lo seguiva e forse anche per questo
un giorno i Giudei hanno chiesto a Gesù:
«Ma tu chi pretendi di essere?» (Gv 8,53).

Occorre partire proprio dall’affermazione
«non è degno di me» per focalizzare
il senso delle parole di Gesù.

La indegnità significa l’impossibilità
di una comunione di vita con Cristo,
la mancanza di sintonia per la presenza
di qualche elemento di disturbo.

Tre sono le possibili stonature:
l’amore preferenziale accordato
ai genitori, ai figli (si usa il verbo philèo
che denota di più l’amore umano
e non il verbo agapào che caratterizza
l’amore divino) e l’amore per sé che allontana
istintivamente dalla croce.

«Prendere la propria croce» («croce» compare qui
per la prima volta) è un’espressione
non troppo criptica per indicare un serio impegno
che può arrivare fino al martirio.

***

Mt 10-37-42 – Non è negato il dovere di amare
i propri genitori (rimane inalterato il valore
del IV comandamento), né tanto meno i figli,
che sono sangue del proprio sangue;
nemmeno si chiede un insano masochismo:
non c’è apoteosi della sofferenza.

Il punto cruciale è il raffronto con Gesù:
lui non è un valore omologabile ad altri,
sia pure universalmente riconosciuti (genitori,
figli, se stessi), né un valore da collocare
accanto agli altri, anche se in stato di preminenza.

Gesù si propone come ideale di vita, espresso
con il caratteristico concetto matteano della «sequela».

«Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà;
e chi avrà perduto la propria vita per causa mia,
la troverà» (v. 39)

Mt 10-37-42 – Dopo aver esigito dal discepoli
il coraggio di rimanere senza appoggi, senza protezione
e senza sicurezze materiali per amore suo,
Gesù continua con un’altra richiesta,
ancora più drammatica:
la disponibilità non solo a perdere tutto,
ma anche a rinunciare alla propria vita.

Giocando sul duplice significato
del termine «vita», Gesù ricorda la possibilità
di perdere la vita terrena (il caso dei martiri),
ma di acquistare la vita eterna.
In termini militari, sarebbe come dire
che vale la pena perdere una battaglia,
pur di vincere la guerra.

«Chi accoglie voi accoglie me,
e chi accoglie me accoglie colui
che mi ha mandato» (v. 40).

Mt 10-37-42 – Non si tratta semplicemente
dell’ospitalità materiale, come quella offerta
dalla donna di Sunem a Eliseo (I Lettura),
ma dell’accoglienza del messaggio.
Dicevano i rabbini: «L’inviato di un uomo
è come quell’uomo stesso».

Gesù intende affermare l’autorità
da lui conferita al suo discepolo:
nelle parole del discepolo risuona la voce
del Maestro.

Non solo, Gesù giunge ad affermare
che è Dio stesso ad essere accolto
(«colui che mi ha mandato»).

Grazie ai discepoli di Gesù,
Dio entra nelle case degli uomini.
Tale è la grandezza degli inviati.

Non devono però insuperbirsi,
perché la grandezza della missione
non immunizza dalla caduta:
il caso di Giuda rimane come triste monito;
gli stessi devono piuttosto ricordarsi sempre
di essere degli inviati
che devono fare riferimento a Gesù.

«Chi accoglie un profeta come profeta…
un giusto come giusto.. avrà dato anche solo
un bicchiere d’acqua fresca…» (vv. 41-42)

Mt 10-37-42 – Questi versetti finali
segnano il passaggio dall’accoglienza
alla ricompensa.

Chi accoglie merita una ricompensa,
proporzionata alla persona che accoglie.

Gli inviati sono descritti
con le categorie bibliche
dei «profeti» e dei «giusti».
Il «giusto» è colui che,
pur con tutti i suoi limiti,
cerca di capire qual è la volontà di Dio
e di viverla in ogni situazione quotidiana.

Anche un gesto d’amore semplice
come quello di offrire un bicchiere d’acqua fresca
a un discepolo, anche se piccolo (cioè semplice,
senza titoli, senza alcuna apparenza)
non rimarrà senza ricompensa.

Secondo commento

Mt 10-37-42 – Facciamo fatica ad ascoltare
certe espressioni paradossali di questo Vangelo,
troppo esigenti e perciò sconcertanti.
Ma la difficoltà maggiore credo sia quella
di immaginare come si possa amare Dio o Gesù.

Dio è invisibile: lo si può amare
come si ama una persona visibile?
Anche Cristo è presente in modo invisibile.
Sappiamo che è tra noi, misteriosamente partecipe
della nostra esistenza, compagno
delle nostre gioie e delle nostre sofferenze.

Ma chi può dire di averlo contemplato,
toccato, abbracciato così come ci è concesso
nei confronti di una persona viva e vicina?

L’amore verso una persona cara
può conoscere l’immediatezza della premura,
della tenerezza, della pietà, della dolcezza.
Come è possibile riservare al Cristo un amore
che abbia la stessa effusione di sentimento?

***

Mt 10-37-42 – Quando leggiamo o ascoltiamo
che dobbiamo amare Gesù, con un amore
che non sia inferiore a quello che un genitore
ha per i propri figli o che un figlio ha
per i propri genitori, non bisogna interrogare
il sentimento, perché rischieremmo di patire
un senso di frustrazione e di sconforto.

Amare Gesù Cristo vuol dire amare
quello che lui ha amato.
E poiché la scelta fondamentale di Cristo
è stata di non conservare la sua vita per sé,
ma di perderla, cioè di donarla,
posso dire di amare Gesù Cristo quando anch’io
sono disposto a fare della mia vita un dono.

***

Mt 10-37-42 – È una scelta
che comporta due movimenti essenziali.

Anzitutto si tratta di separarmi da tutto ciò
che limita, blocca la mia libertà.

Anche l’amore che circola all’interno di una famiglia,
pur essendo qualcosa di grande e di sacrosanto,
può rappresentare un limite: c’è il rischio di chiudersi
in un perimetro di affetti ben ristretto
senza che si avverta l’esigenza di allargare gli spazi
della propria solidarietà nei confronti
di chi avrebbe bisogno di comprensione e aiuto.

***

Mt 10-37-42 – Il secondo movimento richiesto
è quello che porta ad aprirsi all’ospitalità.
Il verbo «accogliere», in due versetti, è ripetuto
ben sei volte.
È un verbo tipico della spiritualità evangelica,
i cui sinonimi potrebbe essere aprire le porte,
ospitare, darsi da fare.

Ciò che importa non è tanto la misura
della propria prestazione (anche solo un bicchiere
d’acqua fresca), ma la qualità dell’accoglienza
che dovrebbe esprimersi attraverso la prontezza,
la premura, la disponibilità.

***

Mt 10-37-42 – È il caso, a questo punto, di ricordare
che questo amore non si oppone all’amore parentale
o filiale, ma lo arricchisce e lo sostiene,

perché chi cerca solo la sua sicurezza
e il suo benessere personale,
può arrivare a dimenticarsi del genitore
quando è un peso
o a chiudere la porta in faccia al figlio
quando questi rappresenti un problema
troppo gravoso per la tranquillità familiare.

L’amore-accoglienza, di cui parla Gesù,
è capace, invece, di generosità inimmaginabile.
È questo amore che permette di amare genitori
e figli con una delicatezza, un rispetto,
una continuità che altrimenti
non sarebbero praticabili.

Foto: Bernardo Strozzi,
Sant’Agostino lava i piedi a Cristo,
1629, olio su tela (310 x 200 cm),
Accademia Ligustica di Belle Arti,
Genova / wga.hu

Lascia un commento