Es 17

Es 17,8-13 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

 

L’antefatto

Es 17 – Nella marcia di Israele nel deserto
si riaffaccia l’incubo della sete e, con essa,
la tentazione alla ribellione contro Mosè e il Signore.

In effetti, il popolo protesta con Mosé
lamentando l’assenza d’acqua (Es 17,2).

Siamo nel deserto di Sin,
nella località di Refidìm,
verosimilmente nell’area meridionale
della penisola sinaitica.

Il luogo è deserto, inospitale;
non s’intravede la possibilità di procurare acqua
e la mormorazione degli Israeliti
monta contro Dio e il suo servo:

«Perché ci hai fatti uscire dall’Egitto,
per far morire di sete noi,
i nostri figli e il nostro bestiame?» (Es 17,3).

In pratica, è un atto di sfiducia a Mosè e a Dio,
per di più accusandoli di non volerli salvare,
anzi di votarli alla morte.
L’uscita dall’Egitto, pertanto,
anziché come atto liberatorio,
è vista paradossalmente come un atto di morte.

A dire il vero, non è la prima volta
che gli Israeliti protestano,
nonostante Dio abbia sempre soddisfatto
le loro richieste relative all’acqua
(Es 15,22-27) e al cibo,
donando loro la manna e le quaglie
(Es 16,1-36) perché restassero fedeli a lui.

Il cammino nel deserto
verso la Terra Promessa
presenta tuttavia numerose difficoltà,
legate non solo ai bisogni primari
come la fame e la sete.

Gli Israeliti devono anche misurarsi
con una tribù nomade, gli Amaleciti,

Una volta, ad esempio, stanchi del viaggio,
chiedono solo un po’ d’acqua
e gli Amaleciti, invece di aiutarli,
li assalgono e uccidono i più deboli
della retroguardia della carovana
(Dt 25, 17-19).

Il nostro testo

La prima Lettura di oggi
si riferisce a uno dei primi scontri
avvenuti con questa tribù.

Amalek, re e condottiero degli Amaleciti,
che vivono tra il Negheb e le montagne di Seir,
decide di attaccare battaglia contro Israele
a Refidìm (Es 17,8).

Mosè, pertanto, ordina a Giosuè di fronteggiarli,
mentre egli, assieme ad Aronne e a Hur,
sale in cima ad una collina
al fine di invocare l’aiuto di Dio (Es 17,9-10).

Accade allora che,
mentre Mosè sta con le mani alzate
in preghiera, Giosuè vince,
ma non appena, per la stanchezza,
egli le lascia cadere,
gli Amaleciti hanno la meglio (Es 17,11)

Come riuscire a mantenere sempre elevate
in preghiera le braccia di Mosè?
Aronne e Hur trovano la soluzione:
fanno sedere Mosè su una pietra
ed essi, uno a destra e l’altro a sinistra,
gliele sostengono.

Rimangono così fino a sera
e Israele sbaraglia gli Amaleciti.

Commento 1

A dire il vero, a prima vista, si rimane sorpresi
a causa di alcune stranezze del racconto.

L’autore sacro non offre ulteriori informazioni
relativamente alle ragioni del conflitto
e neppure alle forze disposte in campo.

La battaglia, infatti, non si combatte
secondo le regole marziali,
con schieramento di eserciti, strategie militari,
dispiego di uomini e di mezzi.

Certamente il comandante Giosuè
(qui menzionato per la prima volta)
dispone di alcuni soldati.
Ma Israele non è ancora dotato di un esercito,
organizzato professionalmente.

Si presenta quindi svantaggiato
rispetto a popoli più forti
e con una lunga tradizione militare.

Ma non è la tattica bellica
e neppure il valore degli uomini
ad assicurare la vittoria,
bensì l’intercessione di Mosè.

Inoltre è l’unica volta che nel brano
si fa riferimento esplicito a Dio:
egli salva il suo popolo
grazie all’intercessione orante del suo servo.

Il nostro brano, tuttavia, non vuole essere un invito
a chiedere a Dio la forza per uccidere i nemici!

I popoli dell’antichità ritengono che gli dei
combattano al fianco del popolo che li adora.

Noi, attualmente, istruiti da Gesù,
sappiamo che questa
è una concezione di Dio arcaica e rozza.

L’episodio narrato nella lettura odierna
è stato inserito nella Bibbia
perché ha un messaggio teologico:
ci insegna che chi vuole raggiungere
obiettivi superiori alle sue forze,
deve pregare… senza stancarsi.

Ci sono risultati
che non possono essere ottenuti
se non mediante la preghiera.

Ci confrontiamo con nemici
che ci impediscono di vivere,
che ci tolgono il respiro:
ambizione, odio, passioni sregolate,
e soprattutto il nostro io elefantiaco.

Se per un solo momento
lasciamo cadere le braccia,
se interrompiamo la preghiera,
immediatamente questi nemici
prendono il sopravvento
e a noi non rimane che rassegnarci
alla drammatica esperienza della sconfitta.

Commento 2

Nello sfondo di questa scena
è facile cogliere il legame inscindibile
fra preghiera e vita, contemplazione e azione.

Qui è chiaro che la preghiera di Mosè
non è semplicemente collocata «accanto»
all’azione di lotta e di vittoria di Giosuè,
ma è posta «dentro», quasi ad animarla
e sostenerla: infatti, senza la preghiera di Mosè
l’azione di Giosuè si sbriciola, si dissesta,
non raggiunge i suoi obbiettivi.

Un insegnamento non piccolo per noi moderni,
che siamo tentati di dar più valore
alla prassi in sé e per sé, quasi che le regole
e i dinamismi che comandano l’agire dell’uomo
nelle situazioni concrete della storia
siano sufficienti a dargli valore e significato.

L’esempio di Mosè sta a dirci
che nessun agire umano ha significato,
al di fuori di un suo costante riferimento a Dio
e di una sua alimentazione alle forze
che vengono da Lui.

La preghiera impedisce all’uomo
di «alienarsi» nelle sue azioni.

Foto: Julius Schnorr von Carolsfeld,
Battaglia contro gli Amalekiti (1860) /
it.wikipedia.org

Lascia un commento