Es

Es 32,7-11.13-14 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Contesto

Es – La I lettura è tratta
dal libro dell’Esodo.

Il titolo Esodo, attribuito
a questo celebre libro biblico
dall’antica versione greca,
definisce precisamente il cuore
dell’intera opera.

Essa, infatti, si sviluppa,
sostanzialmente,
attorno ad una triplice «uscita»:
materiale, sociale e spirituale.

Infatti, il popolo ebraico,
oppresso dalla potenza egiziana,
“esce”, di fatto, dalla terra dei Faraoni
verso la patria
promessa ai padri da Dio.

Inoltre, “esce”, di conseguenza,
dal gioco pesante della schiavitù
verso un orizzonte di libertà.

Infine, “esce”, spiritualmente
dalle limitazioni
e imposizioni religiose egiziane
al fine di servire il Signore
in un culto del tutto libero e sincero.

Il libro dell’Esodo, inoltre,
è dominato da un monte, il Sinai,
che si erge, sensibilmente
nell’aspra solitudine del deserto
in cui vaga Israele.

È su quel monte, infatti,
che la grande guida dell’esodo,
Mosè, riceve il Decalogo, o
più precisamente
le “Dieci Parole”.

Queste forniranno, sicuramente,
la base della morale biblica
e della risposta
che Israele dovrà offrire al Dio
che si è alleato in modo significativo
con lui.

In effetti, attorno a queste parole
si distenderanno, per lunghi capitoli,
le altre leggi, civili e religiose,
del popolo ebraico.

Inoltre, è precisamente
sulla vetta del Sinai
che si svolge, infine,
la scena descritta
nel nostro brano.

Es – Antefatto

Gli Israeliti hanno dimorato a lungo
presso gli Egiziani
che prestavano culto
a molteplici divinità,
così come politeiste sono le genti
dimoranti nei territori
che Dio ha assegnato a loro.

Il Signore ascolta
la voce del suo popolo
che grida a lui
al fine di affrancarlo
dal giogo egiziano.

Prima di entrare
nella terra promessa,
Dio stipula un patto di alleanza
con il suo popolo,
e perciò convoca Mosè
sul monte Sinai
(Es 19,3).

Qui dona le “Dieci Parole”
(Es 20,1-17),
perché il popolo le osservi
e possa così godere
della benedizione divina.

Mosè, tuttavia,
dimora a lungo sul monte,
al fine di ricevere
il codice dell’alleanza (Es 20-24)
e le relative disposizioni
(Es 25,1-31,18).

Il popolo, intanto,
non ha più sue notizie.

Conseguentemente,
ritiene opportuno
rivolgersi ad Aronne
al fine di costruire un dio,
che faccia da apripista
al cammino degli Israeliti
verso la terra promessa.

È il peccato d’idolatria:
infatti realizzano un vitello
di metallo fuso
a cui attribuiscono il merito
di essere stati liberati dall’Egitto.

Di fatto, ripudiano il Signore
e di conseguenza, disconoscono Mosè.

Es 32,7-11.13-14

Il nostro brano riferisce
il dialogo tra il Signore (Es 32,7-10)
e Mosè (Es 32,11.13-14).

Dapprima, Dio informa Mosè
di tutto ciò che gli Israeliti
hanno compiuto in sua assenza
(Es 32,7-8)

Successivamente,
matura la decisione di eliminare
un popolo di dura cervice,
assicurando tuttavia a Mosè
di diventare una grande nazione
(Es 32,9-10).

Segue poi la preghiera
d’intercessione
con la quale Mosè
placa l’ira del Signore
e storna la punizione dal popolo
(Es 32,11.13-14).

Es – Una dura constatazione

Il v. 7 può certamente essere letto
in contrapposizione a Es 32,4:
«Ecco il tuo Dio, o Israele,
colui che ti ha fatto uscire
dalla terra d’Egitto!».

Il giudizio di Dio
è evidentemente severo:
il popolo si è corrotto,
pervertito.

Il termine ebraico è šāḥat
che significa «essere guasto»,
verbo che compare in Gn 6,11
al fine di indicare
il peccato punito con il diluvio.

Il Signore, perciò,
prende le distanze da un popolo
che non riconosce più come suo
(il tuo popolo, dice, infatti,
riferendosi a Mosè).

E ciò perché gli Israeliti
si sono allontanati dalla via
che egli aveva tracciato:

si sono fabbricati un vitello
davanti al quale si sono prostrati,
acclamandolo come il dio
che li ha liberati
dalla schiavitù d’Egitto.

È il radicale sovvertimento
della creazione originaria:
l’uomo, creato a immagine
e somiglianza di Dio (Gn 1,26),
decide di plasmare una divinità
a suo piacimento.

Il v. 9, poi, rincarando la dose
e qualificando Israele
come un popolo di «dura cervice»,
aggiunge anche l’elemento
dell’impossibilità del cambiamento.

Constatata questa situazione,
Dio sanziona perciò la distruzione
di coloro che non riconosce più
come il popolo dell’alleanza.

Ancora sulla dura requisitoria di Dio

Tuttavia, come hanno notato
i commentatori classici ebrei,
Dio, in pratica, prima di procedere,
sembra chiedere il nullaosta di Mosè:

«Ora lascia che la mia ira si accenda
contro di loro e li divori.
Di te, invece, farò una grande nazione»
(Es 32,10).

In questo caso particolare,
Dio crea uno spazio per l’intercessione,
quasi volesse lasciarsi persuadere
da Mose.

Es – Il modo in cui Mosè intercede

«… mentre di te
farò una grande nazione» (Es 32,10).

Di fronte a una simile proposta,
molti di noi forse sarebbero felici
di divenire padri di una famiglia
di «giusti».

Viene istintivo, infatti, distinguere
le proprie responsabilità,
rilevare la propria estraneità ai fatti,
distinguersi dai colpevoli.

Ma Mosè, tuttavia, non fugge,
resta del tutto unito al suo popolo,
preferisce perire con i fratelli
piuttosto che salvarsi da solo.

Mosè, pertanto, si riveste
della funzione di intercessore,
il cui compito è precisamente
quello di «addolcire
il volto del Signore».

Nel nostro testo,
a dire il vero,
l’intercessione di Mosè
è introdotta così:
«Mosè, allora,
supplicò il Signore,
suo Dio, e disse…» (Es 32,11).

In realtà, l’espressione usata
nel testo originale ebraico
andrebbe invece tradotta così:
«Mosè, allora,
cominciò ad accarezzare
il volto del Signore,
suo Dio, dicendo…».

Mosè si comporta, dunque,
come un bambino
che vede il papà corrucciato
e si mette a coccolarlo,
fino a quando non riesce
a strappargli un sorriso.

L’immagine di Mosè
che accarezza il volto di Dio
è sicuramente
una delle più belle della Bibbia.

Forse la scena ci stupisce,
certamente ci sconcerta
perché ci presenta un Mosè buono
che parla con dolcezza
e Dio che invece è adirato
ed ha bisogno
di essere riportato alla calma.

Eppure, con questa immagine,
presa dal nostro mondo umano,
Dio indica con quale fiducia
e confidenza
vuole che ci rivolgiamo a lui
nella preghiera.

Es – L’intercessione di Mosè

Con quali parole, allora, Mosè
accarezza il volto del Signore?

Egli lo fa attraverso una supplica
che contiene tre argomenti
al fine di placare
la giustizia divina irata.

Due ragioni sono del tutto “storiche”,
cioè appellano alla promessa divina
fatta ai patriarchi (Es 32,13)
e alla liberazione dall’Egitto (Es 32,11),
segni, indubbiamente,
di un amore indistruttibile
per Israele.

Mosè, in altre parole,
non giustifica Israele,
né tenta di ridimensionare
il suo peccato,
ma fa leva su Dio stesso:
chiede a Dio di continuare
ad agire da Dio,
di essere fedele a se stesso.

La salvezza del popolo
non può dipendere dai suoi meriti,
ma dalla fedeltà di Dio:
Israele può tradire Dio,
ma Dio non può tradire se stesso.

Nella rilettura del brano
in Dt 9,25, Mosè parla
di un’intercessione
lunga e faticosa.

«Io stetti prostrato
davanti al Signore
per quaranta giorni
e per quaranta notti,
perché il Signore
aveva minacciato
di distruggervi».

Nel nostro testo, invece,
non ritroviamo
alcuna indicazione temporale.

L’argomento più curioso,
addotto da Mosè,
è, invece,
di tipo “apologetico”.
Cerca cioè di difendere
l’onore di Dio presso gli Egiziani.

Costoro, infatti,
quando vedessero Israele
sterminato nel deserto,
crederebbero che il Dio d’Israele
è inesistente e crudele,
incapace di salvare il suo popolo.

«Li ha fatti uscire con malizia,
per ucciderli sui monti
e per sterminarli
dalla faccia della terra» (Es 32,12).

L’effetto dell’intercessione di Mosè

La scena si chiude segnalando
l’effetto delle parole di Mosè
su Dio:
«Il Signore si pentì del male
che aveva minacciato
di fare al suo popolo» (Es 32,14).

In altre parole,
la salvezza del popolo
coincide con la “conversione” di Dio,
con la decisione che Dio prende
da se stesso e su se stesso.

In seguito,
sempre in questo contesto
di peccato-conversione,
ci sarà la mirabile rivelazione
del Nome di Dio:

«Il Signore, il Signore,
Dio misericordioso e pietoso,
lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà,
che conserva il suo amore
per mille generazioni,
che perdona la colpa,
la trasgressione e il peccato,

ma non lascia senza punizione,
che castiga la colpa dei padri
nei figli e nei figli dei figli
fino alla terza
e alla quarta generazione» (Es 34,6-7).

Questa lunga formula
del nome divino ricorda che,
se da un lato,
la giustizia retributiva non è annullata,
dall’altro lato, Dio non per questo
cessa di essere misericordioso.

Il Signore, infatti,
sceglie di punire il male,
ma di non chiudere alla speranza
che un giorno i suoi figli
possano ritornare a Lui.

Foto: Nicolas Poussin, «L’adorazione
del vitello d’oro», 1634 circa,
olio su tela (154×214 cm)
National Gallery, Londra /
it.wikipedia.org

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