Manzoni e gli umili
Un saggio di Alberto Chiari
Manzoni – Alberto Chiari,
emerito dell’Università Cattolica di Milano,
che ha curato, per Mondadori,
l’edizione critica del Manzoni,
pare che abbia perso la pazienza
a proposito di certa accusa
all’autore dei Promessi sposi.
Si dice che la sua religione
sia « paternalistica »,
di benevolenza verso il cosiddetto popolo,
ma non di «medesimezza».
Gli alti pensieri, gli alti sentimenti,
le alte azioni apparterrebbero invece ai «grandi»,
e non a chi sia «popolano».
Un’accusa puntata
in ogni modo sul romanzo
ma che è soprattutto nell’aria
a causa di non si sa quali, giuste o false,
remote o vicine – più remote che vicine –
constatazioni.
Può darsi che certe consuetudini,
certi rispetti abbiano provocato sospetti.
Finisce col farne le spese il Manzoni,
come nome o riferimento
significativo di costumanze.
È il destino dei personaggi insigni:
ossia quello di coprire con la loro ala
le mediocrità o le grettezze dei piccoli.
E così il Manzoni si mostrerebbe,
secondo un certo modo di vedere,
riguardoso verso gli eccelsi,
trascurando, invece,
o canzonando gli umili.
Lì per lì si può anche essere fuorviati:
ma con la riflessione non si pena
a mettere le cose a posto.
Per cominciare:
come si potrebbe, in effetti, discorrere
di una spiritualità del Manzoni
se i suoi interessi andassero solo
verso i cosiddetti «alto-locati»?
Quale spiritualità sarebbe, inoltre,
se rifuggisse dalle « condizioni » degli umili
per sentirsi attratta solo dai contrari,
fino ai superbi?
Lo spirito:
ossia, il meglio della realtà degli uomini,
contaminato da orientamenti materialistici
che ne sarebbero la negazione?
Pare troppo evidente, in effetti,
l’assurdo di un’accusa
perché si debba prendere sul serio.
Si verrebbe a negare
l’essenza dell’umanità
e dell’arte del Manzoni.
Arte e umanità risulterebbero altre.
Senonché anche i falsi procedono
e possono provocare danni.
Perché i danni risultassero a occhio nudo,
bisognerebbe smontare
pezzo per pezzo il romanzo;
analizzare linea per linea i personaggi
e ricavarne un’inoppugnabile dimostrazione
della insussistenza dell’accusa.
In un vero e proprio processo,
si sentenzierebbe che il fatto non sussiste.
A questa conclusione arriva Alberto Chiari in breve,
con una straordinaria capacità di sintesi
che gli deriva dalla profonda conoscenza
del romanzo manzoniano.
Fra quei personaggi,
in quegli avvenimenti,
fra opinioni e sensazioni
egli si muove con tale disinvoltura
da chiudere la bocca
a chi avesse voglia di abbandonarsi
alle velleità e ai capricci,
attribuendo, tutto sommato,
la preferenza agli «altolocati».
Agli altolocati:
ma don Rodrigo era un altolocato;
e non sembra davvero
che si prestino a lui particolari favori.
Se non il protagonista in assoluto,
la molla di tutta la vicenda narrata,
la causa del romanzo, infatti, è quel signorotto.
Senza don Rodrigo, non ci sarebbero
I promessi sposi: ossia, senza la sua arroganza,
senza la sua prepotenza, senza la sua cattiveria.
Il Manzoni avrebbe forse per don Rodrigo
un accento o un comportamento «paternalistico»,
parlando in termini spirituali o di religione?
E, prima della conversione, risulterebbe
un brav’uomo un personaggio come l’Innominato?
Non gliene risparmia, certo, il Manzoni.
E via di seguito: fino a don Ferrante,
a donna Prassede.
Tutta gente che sta nei piani alti
ma non ne beneficia
nell’opinione del Manzoni.
E la monaca di Monza, poi!
Manzoni non ha reso, certo,
un servizio né a lei né alla sua famiglia.
Non se ne sarebbero scoperte le vergogne,
se il Manzoni non vi avesse messo l’occhio,
per rivelare e condannare quel che sappiamo.
Quell’occhio mostrerebbe un favore speciale
per il personaggio e per la sua famiglia?
Gli basta un nulla, per farci saper tutto.
«La sventurata rispose».
L’aggettivo «sventurata» non è gratificante;
non è segno di particolare simpatia.
Si diceva di donna Prassede che,
se pure non ne esce in maniera oltraggiosa,
è intuita ridicolmente, lei e don Ferrante.
«La figura più presuntuosa
e più insipiente – scrive Alberto Chiari –
è un altro grande, don Ferrante,
anch’esso finemente e continuamente
preso in giro e canzonato.
E gli fa degna compagnia
la moglie, donna Prassede,
che si crede così illuminata dall’alto,
e così veggente nelle cose di questo mondo
da farsi zelantissima e petulantissima interprete
ed esecutrice dei voleri del cielo;
solo che faceva spesso uno sbaglio grosso,
ch’era di prendere per cielo il suo cervello,
alquanto chiuso e sconsiderato».
Insomma, atteniamoci alla realtà:
non c’è personaggio in su
che non si presti a scudisciate
da parte del Manzoni;
ad eccezione del cardinale Federico Borromeo.
Ma tutti gli umili
sono osservati con uno sguardo di pietà
o, addirittura, di affetto:
con la grazia di rendere il merito
alla buona, povera e brava gente.
Il Manzoni arriva a intuire
in modo straordinariamente sottile:
come per l’erede di don Rodrigo.
«E proprio il Manzoni – annota Chiari –
infine scrisse quell’episodio
dell’erede di don Rodrigo,
brav’uomo quanto era stato pessimo l’altro,
e prodigo di benefici verso i due promessi
quanto era stato prodigo di malefizi
il defunto cugino,
ma che non andò esente
dalle critiche del Manzoni,
perché il suo spirito di soccorritore
era appunto di tipo paternalistico
e non pienamente rispondente
allo spirito del Vangelo
che non vuole soltanto l’umiltà e la carità,
ma anche e soprattutto
il sentimento dell’integrale parità.
E tanto intende nel suo profondo spirito
questa evangelica carità
che porta al primo sentimento della parità
da giudicarla non solo insuperabile,
ma nemmeno uguagliabile
da alcun’altra dottrina sociale.
Perché anche nel caso ipotetico e utopistico
di un governo ideale, e di leggi perfette,
e di encomiabili esecutori,
il soccorso pubblico provvede al corpo
e trascura l’anima,
assolve – al massimo – ad un dovere,
ma oblia – del tutto – una fratellanza.
Perché è l’anima che conta
ed è solo il Vangelo che lo proclama».
Ecco l’episodio narrato dal Manzoni
nel XXXVIII dei Promessi sposi.
Il marchese fece festa agli sposi,
li condusse nel tinello, li mise a tavola.
«…volle star lì un poco
a far compagnia agli invitati,
e aiutò anzi a servirli.
A nessuno verrà, spero, in testa di dire
che sarebbe stata cosa più semplice
fare addirittura una tavola sola.
Ve l’ho dato per un brav’uomo,
ma non per un originale,
come si direbbe ora;
v’ho detto che era umile,
non già che fosse un portento d’umiltà.
N’aveva quanto ne bisognava per mettersi
al di sotto di quella buona gente,
ma non per istar loro in pari».
Dov’è il «paternalismo»?
Quando ci si mette un’idea in testa,
magari prendendo un abbaglio – e il Manzoni
si è sempre tenuto a tiro -,
non riesce facile desistere.
Ma il romanzo
non è un’apologia degli umili?
Alberto Chiari ha smontato l’accusa
con un Rapido appunto avverso
ad una falsata prospettiva
della spiritualità di Alessandro Manzoni:
nei «Nuovi annali
della facoltà di magistero
dell’università di Messina, Herder».
Luigi M. Persone’, «Manzoni e gli umili.
Un saggio di Alberto Chiari», in
“L’Osservatore Romano”,
mercoledì 16 luglio 1986, p. 3.
Foto: Don Rodrigo / it.wikipedia.org