Setaccio – Siracide 27,5-8 – Domenica VIII del Tempo Ordinario – C
Setaccio. La prima lettura è tratta dal libro del Siracide.
Il titolo
Siracide è il titolo con cui oggi si preferisce designare il libro sapienziale
chiamato fino a poco tempo fa Ecclesiastico
e che nei principali codici greci è intitolato
«Sapienza di Gesù, figlio di Sirach» (da cui il patronimico: Siracide).
Il titolo Ecclesiastico risale ai primi secoli cristiani
(San Cipriano, morto nel 248, è il primo autore
presso cui lo si trova indicato con questo nome)
e sembra motivato prevalentemente dall’uso che si faceva
di questo libro nella Chiesa antica per l’istruzione morale dei catecumeni).
Infatti esso, tra i libri sapienziali, è il più ricco di insegnamenti pratici,
presentati in tono paterno e persuasivo, per ogni categoria di persone.
Il testo
Il testo ebraico andò perduto, non essendo stato riconosciuto come ispirato
dai rabbini che fissarono il canone della Bibbia ebraica.
Fortunatamente il nipote dell’autore, trasferitosi in Egitto,
tradusse in greco, per gli Ebrei ivi residenti, l’opera del nonno,
sembrandogli degna di essere conosciuta più largamente
e quanto mai adatta ad aiutare i suoi connazionali
a vivere secondo la legge di Dio e le tradizioni dei padri.
Fu questa traduzione ad entrare nella Bibbia greca
e ad essere accolta dalla Chiesa come testo canonico.
Contesto storico
Il periodo in cui Ben Sira compone la sua opera è contrassegnato
dall’espansione nel Medio Oriente della lingua, cultura e religione ellenistica.
Dopo la battaglia di Panion (198 a.C.), la Palestina era passata
dalla dominazione blanda dei Tolomei d’Egitto
a quella più ostile dei Seleucidi di Antiochia di Siria,
che sfocerà nella lotta aperta, nel 167, con la rivollta capeggiata dai Maccabei.
Di fronte all’invadenza del mondo greco,
Israele ha bisogno di rinsaldare la sua fede,
l’attaccamento al suo patrimonio religioso, storico e sapienziale;
ha bisogno di riprendere saldamente coscienza della sua inconfondibile identità
di popolo dell’Alleanza, per restare se stesso e per sopravvivere.
Setaccio. Il nostro testo
Il brano scelto per la liturgia odierna è incentrato sul motivo della parola (v. 8):
è attraverso di essa che è possibile misurare il valore di un uomo.
I simboli del setaccio (v. 5), della fornace (v. 6) e del frutto (v. 7)
hanno valore illustrativo e attestano che la presenza residua dei rifiuti,
o la qualità di un vaso ceramico o di un albero,
non possono essere valutati né giudicati prima di essere verificati.
In altre parole, attraverso il conversare l’essere umano
fa palesare le sue debolezze e i suoi “difetti”,
ma anche il grado della sua intelligenza
perché la parola è vista come il “frutto” del suo ragionare.
Pertanto, come attraverso il setaccio si evidenziano le impurità,
mediante il fuoco si prova il vaso,
e come il frutto rivela com’è coltivata la pianta,
così il parlare dimostra la qualità morale e culturale di un uomo.
Setaccio (il) dei ragionamenti
La prima immagine (v. 5) è quella del setaccio (kòskinon),
che consente al contadino di separare i chicchi di grano
dalle impurità, dalle foglie, dalle pagliuzze, dalla pula
trattenendo i primi e scartando tutto il resto.
Come il vaglio separa il grano dalla pula,
così la bontà e la cattiveria degli uomini
si manifestano nelle loro riflessioni e nelle loro parole.
La prova del fuoco
La consistenza di un vaso plasmato dall’artigiano
non dipende dalla foggia che gli è stata impressa,
ma dalla sua capacità di resistere alle alte temperature della fornace (kàminos).
La cottura è il processo conclusivo
che definisce il vaso nella sua forma definitiva (v. 6).
Come le imperfezioni e le scorie di oggetti e vasi
si possono controllare nel momento in cui sono in lavorazione nel forno,
così le intenzioni segrete e le passioni umane
si rivelano nella discussione appassionata.
Il frutto del cuore
L’ultima metafora è attinta dal mondo agricolo (v. 7):
come l’efficacia dell’impegno profuso dal contadino
può essere confermata esclusivamente dalla bontà dei frutti,
così solo la Parola può veicolare all’esterno i pensieri del cuore (kardìa) umano,
manifestandone le intenzioni
Ne consegue che, come la qualità degli alberi si riconosce dai loro frutti,
così i pensieri nascosti e gli orientamenti di vita dell’uomo
sono messi in luce dalle parole e dalle azioni.
Attualizzazione
Quando finalmente viene smascherato qualcuno
che è riuscito a tessere intrighi a nostro danno,
ha tramato nell’ombra e l’ha sempre fatta franca,
esclamiamo soddisfatti: «Tutti i nodi vengono al pettine».
Certo i denti del pettine possono essere radi o fitti.
Per noi, magari, usiamo il pettine largo,
mentre per gli altri preferiamo quello fine.
Il Siracide non impiega il paragone del pettine,
ma quelli del vaglio e della fornace.
La prima lettura di oggi inizia dicendo che, nei confronti degli altri,
noi ci comportiamo spesso come le donne che setacciano il grano:
li giriamo e rigiriamo, li scuotiamo per bene
finché non riusciamo a far venire fuori tutti i difetti,
tutti gli scarti, tutte le magagne che hanno.
Ci comportiamo come i vasai:
li sottoponiamo alla prova del fuoco,
li teniamo a lungo nella fornace dei nostri severi controlli.
Se invece ci esaminassimo con il medesimo rigore,
scopriremmo non solo i limiti degli altri,
ma anche le nostre numerose manchevolezze (v. 4).
Ci sono tuttavia situazioni in cui non ci si può esimere
dall’esprimere giudizi e dal fare valutazioni obiettive:
non si può concedere a tutti la stessa fiducia,
è doveroso farsi un’idea corretta dell’autentico valore delle persone.
Ma quali criteri seguire per dare valutazioni ponderate?
Il Siracide dà un consiglio saggio:
non ci si deve far condizionare dalla prima impressione.
Per conoscere ciò che le persone hanno nel cuore bisogna lasciarle parlare
perché «la prova dell’uomo sta nella sua conversazione…
la parola rivela il cuore dell’uomo» (vv, 5-6).
In conclusione, per conoscere bene l’uomo
bisogna prima valutare il suo parlare,
il suo modo di pensare e il suo agire,
senza mai escludere una giusta dose di prudenza,
perché la vita intima e segreta di ciascuno solo Dio la conosce a perfezione.
Setaccio. I tre setacci di Socrate
Una volta uno dei suoi discepoli si presentò a Socrate
in stato di grande agitazione, raccontando di aver appena incontrato
un amico del filosofo e che questi era intento a parlarne male.
Anzitutto Socrate chiese al suo discepolo di calmarsi.
In seguito, prima di ascoltare ciò che egli aveva da dirgli,
decise che il messaggio doveva passare attraverso tre setacci.
Se non li avesse superati, il messaggio non sarebbe stato degno di essere ascoltato.
Il primo setaccio è la verità.
«Sei assolutamente certo che quello che stai per dirmi corrisponde a verità?».
«No… ne ho solo sentito parlare…».
«Quindi non sai se è tutto vero, oppure no», concluse Socrate
mentre al discepolo non restava che annuire.
Il secondo setaccio è la bontà.
«Quello che stai per dirmi è qualcosa di buono o no?».
«Ah no, al contrario!».
«Dunque – continuò Socrate – vuoi raccontarmi brutte cose
e non sei nemmeno certo che siano vere».
E il discepolo ammise che era così.
Il terzo setaccio è quello dell’utilità
«Quello che mi stai per dire sul mio amico mi sarà utile in qualche modo?».
«No, davvero»-
«Allora – concluse Socrate -, quello che volevi raccontarmi
non è né vero, né buono, né utile.
Perché volevi dirmelo?».
Foto: Tre Cime di Lavaredo, Dolomiti sul confine delle Provincie di Bolzano (Dobbiaco) e Belluno (Auronzo di Cadore) / siviaggia.it