Risurrezione

Risurrezione dei morti

Risurrezione dei morti. A partire dal II secolo a.C. si diffuse in Israele un movimento culturale, detto apocalittico, caratterizzato dall’interesse per la storia del mondo e dalla riflessione sul destino di tutti gli imperi. Gli apocalittici coltivavano la convinzione che gli eventi non volgessero al meglio, ma al peggio e che questo mondo fosse destinato, fra terribili convulsioni, alla morte e alla corruzione. Dalle sue ceneri Dio avrebbe poi fatto sorgere un mondo nuovo che sarebbe toccato in sorte ai pii. Sarebbe iniziata una nuova era, l’epoca di pace, benedizione e prosperità, in un regno governato direttamente dal Signore.

Questo annuncio di gioia e di speranza, che costituisce il messaggio centrale della letteratura apocalittica, è comunicato dagli autori apocalittici attraverso un linguaggio oscuro e misterioso in cui tutto ha valore simbolico: i numeri, i colori, le bestie, i tipi di vestiti, le parti del corpo, i personaggi. Le loro rivelazioni sono trasmesse mediante visioni, allegorie e immagini che non vanno mai prese alla lettera, ma devono essere attentamente decodificate.

L’uso di questo linguaggio ebbe il suo momento culminante al tempo di Gesù: non deve quindi destare meraviglia che anche il Maestro lo abbia impiegato e che lo si ritrovi in tutti i libri del Nuovo Testamento, non solo nell’ultimo che porta il nome di Apocalisse.

Il libro di Daniele, dal quale è tratta la Prima Lettura di oggi, è considerato il primo degli apocalittici. È stato scritto in un’epoca quanto mai travagliata per Israele, quella dello scontro fra la cultura ellenistica, imposta con la forza dal re Antioco IV Epifane (175-165 a.C.), e le tradizioni patrie, sostenute dal movimento dei Maccabei. Come tutti gli apocalittici, l’autore del libro di Daniele rivolge al popolo perseguitato e oppresso un invito a mantenersi saldo nella prova e annuncia un messaggio di speranza: il regno del male è giunto al termine e il regno celeste sta per sorgere.

Commento esegetico

(v. 1a): “In quel tempo …” : cioè il tempo della morte del re persecutore (cfr Dn 11,40-45) fa parte del dramma escatologico, “il tempo della fine” (cfr Dn 11,40; 12,4). Ci sarà grande tribolazione ma poi verrà la salvezza dei fedeli del popolo di Daniele. Si noti come il termine “tempo” ricorra quattro volte in 12,1. Secondo il testo e il contesto dunque la morte del re Antioco IV Epifane coincide con l’inizio degli ultimi eventi. Di fatto, però, cronologicamente, non è così. Dove sta la verità allora del nostro testo? Il valore di verità in questo testo, e in testi escatologici simili altrove nella Bibbia, non sta nella precisione cronologica delle predizioni del futuro ma piuttosto nella convinzione religiosa che in ultima analisi il male non trionferà e che i fedeli di Dio saranno certamente premiati per le loro sofferenze.

(v. 1b): “… si leverà Michele”. Michele, già menzionato come angelo protettore di Israele in Dn 10,13-21, ritorna qui con una funzione particolare: “che vigila sui figli del tuo popolo” (letteralmente “che sta sopra …”). L’espressione ebraica potrebbe avere una connotazione giudiziale: “stare come in tribunale per difendere qualcuno o per eseguire la sentenza della corte”. In effetti i versetti seguenti 12,2-3 implicano il grande giudizio escatologico.

Nel “tempo di angoscia” (v. 1c), che fa parte del motivo tipicamente apocalittico delle tremende tribolazioni degli ultimi tempi (cf. Marco 13,19.24 par.), ci sarà un esito favorevole per il popolo di Daniele (v. 1e); non indistintamente per tutti gli ebrei però, ma per chiunque di loro “si troverà scritto nel libro” (v. 1f).

Notiamo qui una doppia restrizione: il testo si interessa del popolo di Daniele, non di altri popoli, e afferma la salvezza soltanto per quegli ebrei i cui nomi si troveranno nel libro – presumibilmente il “libro della vita” (cf. Es 32,32-33; Is 4,3; 65,6; Sal 69,29).

La salvezza annunciata nel v.1e-f sembra che riguardi gli ebrei che saranno in vita negli ultimi tempi. Ma quale sarà la situazione degli ebrei fedeli che saranno già morti prima? Saranno esclusi da questa salvezza? A questa domanda risponde il v.2.

v. 2: “Molti di quelli che dormono… si desteranno”. La maggior parte degli studiosi sostiene che Dn 12,2 sia l’unico testo nella Bibbia ebraica che parli chiaramente di una risurrezione dai morti per alcune persone almeno. Il linguaggio del versetto ha contatti importanti con Is 26,19 – un testo filologicamente molto difficile che nella versione CEI suona così: “Ma di nuovo vivranno i tuoi morti, / risorgeranno i loro cadaveri. / Si sveglieranno ed esulteranno / quelli che giacciono nella polvere…”. Notiamo qui in particolare il verbo “svegliarsi” e il sostantivo “polvere”, che si ritrovano in Dn 12,2. Mentre Is 26,19 viene per lo più interpretato come un’espressione metaforica per la restaurazione nazionale del popolo, Dn 12,2 si serve del linguaggio del testo profetico per comunicare una nuova speranza, cioè, la risurrezione dai morti per certi individui.

Tuttavia accanto ad elementi chiari il v. 2 contiene diverse difficoltà interpretative.

Ciò che è chiaro lo troviamo nel v.2a. La metafora “dormire” per “essere morto” è comune nella Bibbia (per es. Ger 51,39.57; Sal 13,4; Gb 3,13) e nelle culture intorno a Israele (dove è particolarmente frequente in testi greci dell’epoca ellenistica). L’espressione “nella terra di polvere” si riferisce allo Sheol, il mondo dei morti nell’antropologia semitica (c’è un sintagma accadico “casa di polvere” per indicare appunto il mondo dei morti). E il verbo “svegliare” si trova nel senso di un “tornare alla vita dalla morte” in 2 Re 4,31 e Is 26,19 (già menzionato).

Dunque il v.2a annuncia una vita nuova per persone già morte. Ma chi sono precisamente? A questo punto entriamo nelle difficoltà interpretative del versetto.

Prima c’è il sintagma “molti dei dormienti…”. Il termine “molti” in alcuni testi biblici può avere un senso inclusivo, indicando cioè una grande moltitudine senza connotare l’esclusione di alcuno: così per esempio in Mc 14,24 (“questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti”). Alcuni pochi esegeti hanno proposto questo senso inclusivo anche per Dn 12,2, dove allora “molti” significherebbe o “tutti i morti” o almeno “tutti gli Israeliti morti”.

Però ci sono due argomenti pesanti contro questa interpretazione nel caso presente.

In Dn 12,2 il termine “molti” è seguito da una preposizione min, che in espressioni di questo genere normalmente ha un senso partitivo (indicando dunque una parte di una totalità), per cui i “molti” sono solo una parte e gli altri della totalità non sono compresi nel verbo “si sveglieranno”. Altrove in Dn tutte le ricorrenze del termine “molti” si riferiscono a gruppi particolari e non a tutto il popolo (si tratta di dodici testi tutti nei capp. 8-12, tre dei quali in 12,1-4). Si capisce allora perché una larga maggioranza di commentatori sostiene che il v.2a annunci un ritorno alla vita per alcuni ma non per tutti, una risurrezione limitata, non una risurrezione generale.

Poi ci sono le due “destinazioni” (2b-c): “la vita eterna” (2b: il solo testo nella Bibbia ebraica con questo sintagma) e “la vergogna e l’infamia eterna” (2c: dove il termine “infamia” ricorre altrove solo in Is 66,24).

Chi sono quelli che andranno all’una e all’altra di queste destinazioni? E nei due casi si tratta di una risurrezione?

Gli studiosi si dividono di fronte a queste domande. Sinteticamente si possono distinguere due tipi di interpretazione.

Tipo A (quello più comune): Molti si sveglieranno (= risorgeranno). Di questi, alcuni risorgeranno alla vita eterna (nel contesto, gli ebrei fedeli che sono morti nella persecuzione di Antioco), mentre altri risorgeranno ad un castigo esemplare (gli ebrei apostati nella persecuzione, e forse anche i persecutori pagani). Il testo non si preoccupa direttamente di altre persone dei tempi precedenti o successivi; non esclude una risurrezione per loro ma non l’afferma neanche.

Tipo B (minoritario ma difeso anche da studiosi recenti e contemporanei): Molti si sveglieranno (= risorgeranno) e si sveglieranno alla vita eterna (gli ebrei fedeli morti nella persecuzione). Gli altri, che non risorgeranno, rimarranno nella vergogna e infamia dello Sheol (gli ebrei apostati). Secondo questa linea di interpretazione, dunque, “quelli” e “quelli” del v.2b-c non sono due sottocategorie di risuscitati ma indicano “i risuscitati” e “i non-risuscitati”; in altre parole il versetto annuncia solo una risurrezione dei giusti (cf. 1 Enoch 7; 2 Mac 7,7-23; 12,38-46; 14,45-46).

v. 3a: “I saggi splenderanno come lo splendore del firmamento”. Nell’annuncio della risurrezione è annunciato uno splendore particolare per “i saggi”.

v. 3b: “… e quelli che avranno indotto molti alla giustizia, saranno come le stelle…”. Questa categoria di persone è stata già menzionata in Dn 11,33.35 dove si dice anche che alcuni di essi hanno subito il martirio. Qui notiamo in particolare un contatto molto interessante fra Dn 12,3 e Is 52,13-53,12 (il “Quarto Canto” del servo): il sintagma “rendere giusto, indurre alla giustizia” più il termine “molti” come complemento oggetto si trova in Is 53,11 (“il giusto mio servo giustificherà molti”) e Dn 12,3 (“i saggi … che avranno indotto molti alla giustizia”), e in nessun altro testo della Bibbia ebraica. Sembra proprio che Dn 12,3 voglia attribuire ai saggi del tempo di Antioco il ruolo del servo sofferente di Is 53; forse l’interpretazione-applicazione più antica della figura del servo sofferente.

v. 4 (non riportato dal nostro brano): Qui finisce la rivelazione del futuro (11,2-12,4). Si noti solo dalla prima parte del versetto il motivo di segretezza (4a-b: parole chiuse e libro sigillato). Si ritorna al “Daniele del testo”, e dunque al sesto secolo a.C. La rivelazione fatta in quel tempo deve essere mantenuta segreta “fino al tempo della fine” (v. 4c), cioè, al tempo intorno alla persecuzione di Antioco nel secondo secolo a.C., il tempo dei primi lettori reali. Questo motivo di segretezza è un’esigenza del procedimento di pseudonimia, che è tipico di molte opere apocalittiche e anche del libro di Daniele. Tralasciamo qui l’ultima parte del versetto (4d-e) a causa delle difficoltà filologiche notevoli del testo ebraico.

Commento teologico

Il nostro brano è altrettanto breve quanto importante nella storia della rivelazione. Per mezzo del suo linguaggio, ripetuto alla lettera da Gesù in alcuni passi nei quali si riferiva agli ultimi tempi, sappiamo che l’apocalittico fa ora da profeta. Per la prima volta in tutto l’Antico Testamento ci è assicurata, con garanzia ispirata, la risurrezione dei morti.

La persecuzione di Antioco offrì l’occasione per riesaminare il problema della retribuzione che era rimasto come sotto la cenere per vari secoli senza ricevere una risposta definitiva. Giobbe era ancora lì che si dibatteva fra la sua innocenza e la sua sofferenza. Fu necessaria la crisi maccabaica; furono necessari i martiri della persecuzione per far sbocciare la fede nella risurrezione che si sarebbe trasformata in un domma.

Nei capitoli precedenti l’autore aveva insistito, con tutti gli artifici del linguaggio apocalittico, sulla restaurazione del regno dei santi che avrebbe sostituito tutti i regni storici. Animati da questa speranza, molti avevano difeso la loro fede fino alla morte. Ma allora sorse l’interrogativo tormentoso: Quando giungerà il regno dei santi, dei giudei fedeli alla legge e a Dio, quale sarà la sorte di questi martiri della loro fede? La morte e lo sheol potranno essere il premio comune?

E l’autore ispirato apre le porte a una nuova e ancora sconosciuta speranza: «In quel tempo», senza altre precisazioni, ma con garanzia assoluta, «molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno». L’eufemismo è già tutta una rivelazione. Cristo lo userà riferendosi alla morte del suo amico Lazzaro e dovrà spiegarlo ai suoi apostoli. È il sonno della morte, perché la morte, per colui che crede, è il dormire per un glorioso risveglio in Dio.

Ma questa risurrezione resta ancora molto particolareggiata e lontana dalla perfezione che le darà il NT. Si salveranno – risusciteranno – solo quelli che sono scritti nel libro della vita. Infatti, non tutti i figli del popolò di Dio erano stati fedeli alla loro fede. Dunque, non tutti risusciteranno?

Se ci atteniamo al testo e al contesto, la nostra risposta non può essere affermativa. Nel testo (vv. 1-2), si parla solo del popolo eletto, e dal contesto sappiamo che le speranze, restano ancora a un livello terreno. La risurrezione o ritorno alla vita, considerata come una ricompensa, poteva essere concessa solo ai giusti, gli unici che avevano bisogno di rivivere per ricevere secondo giustizia il premio delle buone opere e della fede. Era assurdo immaginare questa grandiosa ricompensa per i peccatori, specialmente all’alba di questo articolo di fede. La risurrezione dei peccatori e la risurrezione universale di tutti gli uomini sarà uno sviluppo ulteriore del Nuovo Testamento.

Non ci è detto nulla circa l’oggetto della futura felicità dei risuscitati in questo mondo. Stando al contesto, si suppone che essi partecipino del regno messianico eterno. Per dare risalto alla loro situazione, l’autore sa solo paragonarli allo splendore delle stelle del firmamento. Certamente i veri «saggi» saranno essi, e non quelli che si credettero tali per la sapienza di questo mondo. Allo stesso paragone con le stelle ricorrerà Paolo per dare un’idea della differenza fra gli eletti. Quasi senza rendercene conto, stiamo arrivando alle porte dell’Apocalisse o rivelazione piena in Cristo.

Foto: Luca Signorelli, La risurrezione della carne, San Brizio (Cappella Nova), Duomo di Orvieto / frammentiarte.it

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