Geremia
Geremia. Nel dizionario, alla voce “geremiade” troviamo: lunga e noiosa sequela di lamenti. Così dovettero risultare gli annunci di sventura e le continue minacce di catastrofi proclamate dal profeta Geremia. Questi svolse il suo ministero tra il 627 e il 586 a.C., un periodo caratterizzato dal predominio della potenza babilonese.
Ma ciò che rese più drammatica l’esistenza di questo profeta fu l’incomprensione a cui andò soggetto per la sua predicazione controcorrente. Geremia, infatti, sosteneva la necessità di arrendersi ai Babilonesi, ormai padroni di tutto il Medio Oriente, e combatteva la corrente filo-egiziana, sostenuta dagli stessi re di Giuda, che confidava nell’alleanza con l’Egitto per fermare l’avanzata dell’esercito babilonese.
Non ascoltato dai suoi contemporanei, Geremia visse, così, in prima persona, il declino del regno di Giuda e nel 587 assistette alla caduta di Gerusalemme e alla deportazione dei superstiti. Egli non andò in esilio, ma, rimasto in patria, fu costretto a fuggire in Egitto da dove non fece più ritorno.
Eppure ci fu un periodo nella vita di Geremia in cui anch’egli si sciolse in previsioni incoraggianti e pronunciò oracoli lieti. Accadde quando il pio re Giosia diede inizio, nel 621 a.C., a una profonda riforma religiosa e intraprese la riconquista della Samaria, sottratta a Israele cent’anni prima dagli Assiri. Questi oracoli, riuniti in quattro capitoli detti dai biblisti Libro della consolazione (cc. 30-33), sono un susseguirsi di inviti alla gioia e alla festa, perché il Signore ama ancora Israele (Ger 31,3.15-20) e sta per compiere un intervento prodigioso in suo favore: ricondurrà nella loro patria gli esuli deportati a Ninive (Ger 30,3).
La Prima Lettura di oggi è ritagliata da questo cosiddetto Libro della consolazione, e precisamente dal capitolo 31, forse il più interessante di tutto il libro di Geremia grazie alla sua ricchezza teologica.
Il capitolo 31 si apre con un poemetto che prospetta un futuro di gioia e di pace per tutto il popolo e richiama un passato intriso dell’amore di Dio. Sono immagini tenere e delicate, abbastanza rare in Geremia. Più avanti, a partire dal v. 31, incontriamo la celebre profezia della nuova alleanza.
Noi ci fermiamo molto prima, interessati ai vv. 7-9 proposti dall’odierna liturgia.
Un grido dirompente di gioia apre il brano, motivandolo con “il Signore ha salvato il suo popolo”: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, un resto d’Israele» (v. 7).
La salvezza prende vivacità e concretezza nella scenografia di Dio pastore che raduna tutti gli esuli: «li riconduco dal paese del settentrione e li raduno all’estremità della terra» (v. 8), e di Dio padre che consola e assicura benessere: «li riporterò tra le consolazioni… perché io sono un padre per Israele, Efraim è il mio primogenito» (v. 9).
L’invito alla gioia rientra nel contesto di Israele celebrato come «la prima delle nazioni». Le ragioni di tanto onore non sono né culturali né economiche, ma solo perché, come già ricordato, «il Signore ha salvato il suo popolo».
L’azione divina si muove in una prima traiettoria, quella di radunare persone molto lontane («dal paese del settentrione») e di radunarle all’estremità della terra. Il Signore traccia una strada, la strada del ritorno.
Nel corteo che percorre la strada che riporta il resto degli esuli salvati dal Signore a Gerusalemme, Geremia scorge e osserva ciechi, zoppi, donne incinte e donne partorienti (v. 8). Una comitiva davvero singolare. Nessuno se la sentirebbe di scommettere sulla riuscita del viaggio: con gente simile non si va lontano, non si cammina spediti. La loro condizione è critica: sono ciechi incapaci di orientarsi, zoppi che camminano con difficoltà, donne appesantite dalla gravidanza e afflitte dai dolori del parto.
È significativo che il resto d’Israele non sia il risultato di una rigorosa e spietata selezione da cui sono sopravvissuti i migliori, sono emersi i più dotati. Al contrario, il resto d’Israele che garantisce il futuro è un gruppo un po’ scalcinato di miserabili, di gente da poco. La “purezza della razza” degli appartenenti al popolo di Dio non è assicurata da individui senza difetti, ma da creature privilegiate perché amate da Dio. Quando Dio intende ricostruire, sceglie la debolezza non la forza, materiale povero non realtà prestigiose.
Questi salvati dalla deportazione, chiamati a ripercorrere a ritroso il cammino che li ha condotti lontano dalla patria, raffigurano coloro che, dopo essersi allontanati dal Signore, sono divenuti prigionieri dei vizi, delle cattive abitudini, del peccato, non hanno più la forza di tornare a Dio e forse neppure lo desiderano. Se la liberazione dipendesse solo da loro, se dovessero contare solo sulle loro forze, avrebbero tutte le ragioni per rassegnarsi alla schiavitù.
Anche il resto d’Israele si riteneva gente da poco o addirittura fallita; invece fu da questo resto che Dio fece ripartire la storia d’Israele.
Nell’ultima parte del brano (v. 9) Geremia descrive, ricorrendo alle immagini dell’esodo dall’Egitto, il ritorno di questi deportati. Attraversano il deserto senza incontrare alcuna difficoltà, non patiscono né fame né sete, come invece era accaduto ai loro padri in fuga dalla schiavitù del faraone. Il Signore fa loro incontrare fiumi d’acqua e traccia una strada diritta e comoda sulla quale non possono inciampare.
Le parole consolanti di Geremia sono riproposte oggi per ricordare che la storia di questi esiliati è la nostra. Chi si allontana dal Signore fa l’esperienza del «pianto» (v. 9), ma il cammino del ritorno, pur impegnativo e difficoltoso, è anche disseminato di soddisfazioni che, come tante sorgenti d’acqua zampillante nel deserto, il Signore si impegna a farci incontrare.
L’ultimo tocco è anche il vertice poetico e teologico del brano: «Io sono un padre per Israele, Efraim è il mio primogenito». Con Efraim si intende il regno settentrionale, quello apparentemente più abbandonato e più vicino ai pagani. Di fatto, sperimenta anch’esso la premurosa azione divina, espressione di amore paterno.
Foto: Michelangelo Buonarroti, Il profeta Geremia, Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano / it.wikipedia.org