Empi

Empi e giusti

Da sempre si assiste allo scontro tra bene e male o, meglio, tra buoni e cattivi. Solitamente lo schema si ripropone in questi termini: dopo un momentaneo o parziale successo dei cattivi, i buoni alla fine trionfano. Così raccontano tante fiabe che, a loro modo, insegnano la superiorità del bene.

Qualcuno potrebbe sbrigativamente classificarle come il surrogato per una pia consolazione davanti all’imperversare del negativo e al suo schiacciante successo. Quel qualcuno dovrebbe però accettare che uno schema analogo è proposto dalla parola di Dio. Essa attraversa i secoli e assicura che il bene alla fine trionferà, perché è Dio stesso a regnare sopra tutto e sopra tutti. In attesa del mistero pasquale che renderà evidente la supremazia del bene e della vita, l’Antico Testamento si impegna ad alimentare una speranza, rivestendola di certezza.

Più precisamente il capitolo 2 del libro della Sapienza, l’ultimo in ordine di tempo, perché scritto verso il 50 a.C. e direttamente in greco, contiene il «grande manifesto degli empi». Una specie di proclama articolato su questi punti: – negazione dell’al di là – esaltazione del piacere – ripudio dell’educazione tradizionale – persecuzione nei confronti del «giusto». C’è qualcosa di più di un «inno alla gioia», vi affiora una filosofia della vita, e perfino una teologia della storia, che si scontra con quella opposta, impersonata dal fedele.

È ciò che è detto nella Prima Lettura. Il nostro brano riporta alcuni versetti di un più ampio discorso degli ”empi”, i quali hanno una concezione essenzialmente materialistica ed edonistica della vita: «Breve e triste è la nostra vita, il rimedio non sta nella fine dell’uomo, né si conosce chi sia tornato dall’Ade. Per caso siamo nati e dopo morte saremo come se non fossimo stati… Su, dunque, godiamo dei beni presenti e facciamo uso delle cose create con ardore giovanile!» (Sap 2,1-2.6, non riportati nel testo).

È chiaro che, in tale prospettiva, la sola presenza di un «giusto» che si affida a Dio e vive la sua vita dandole un significato completamente «diverso», è per gli empi un cocente rimprovero, che essi sono tentati di far tacere anche con la sopraffazione fisica.

È quanto emerge fin dall’inizio del brano propostoci oggi dalla Liturgia: «Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo, si oppone alle nostre azioni; ci rinfaccia le trasgressioni della legge e ci rimprovera le trasgressioni contro l’educazione da noi ricevuta» (Sap 2,12).

L’atteggiamento violento e intollerante degli empi diventa, nello stesso tempo, sfida contro Dio, al quale il «giusto» si è affidato: se Dio è veramente con lui, dovrà manifestarsi liberandolo dalle loro insidie! «Vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che ne sarà della sua fine. Se il giusto è veramente figlio di Dio, egli l’assisterà, e lo libererà dalle mani degli avversari. Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti, per conoscere la sua mitezza ed esaminare la sua sopportazione del male» (Sap 2,17-19).

L’ultimo passaggio di questa trama eversiva è il danno sommo che si può arrecare a un uomo: «Condanniamolo a una morte infamante perché, secondo le sue parole, Dio si prenderà cura di »lui (Sap 2,20).

La Prima lettura termina così, con lo strapotere degli empi che sembrano riuscire sempre nei loro intenti. Tagliato a questo punto, il testo liturgico sembra dare ragione ai pessimisti che vedono tutto nero e non credono nella forza travolgente del bene.

Sarà il salmo responsoriale con il ritornello «Il Signore sostiene la mia vita» a spalancare le porte della certezza che l’ultima parola è di Dio, quindi del bene e della vita. E il salmista, portavoce dei giusti di tutta la terra, potrà cantare: «Dio è il mio aiuto, il Signore sostiene la mia vita. Ti offrirò un sacrificio spontaneo, loderò il tuo nome, Signore, perché è buono» (Sal 53).

Anche se è sopraggiunta la morte del giusto, richiamo a tutti i martiri della storia, il finale è un trionfo della vita, quella eterna, immagine di quella pienezza di felicità che è completa comunione con Dio.

Il discorso rievocato dalla Prima Lettura è sviluppato da un alessandrino di origine giudea, che ha barattato la morale dei padri con quella epicurea, di grana grossa. E avvertendone, sotto la crosta della spensieratezza, il vuoto, si ritrova sfiduciato, scettico, esacerbato. Per cui il transfuga maschera la propria delusione polemizzando aspramente contro i propri ex correligionari, contestandone i valori su cui continuano a impostare la loro vita, negando ogni valore alla legge di Dio. Quasi dicesse loro: «È inutile, tutto finirà nel nulla anche per voi, nessun Dio vi salverà».

Chi è il “giusto” sul quale si accanisce? Può essere rappresentato da un individuo preciso, ma può essere anche il simbolo di tutti coloro che hanno una felice relazione con Dio e che si oppongono al male. Ciò che è certo è che i cristiani hanno incominciato per tempo a vedere nel “giusto”, lo stesso Cristo: «Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso… Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio» (Mt 27,42-43).

Verrebbe da commentare: bei tempi quelli in cui la testimonianza di un uomo giusto appariva imbarazzante, scomoda, elemento di destabilizzazione. E gli empi correvano ai ripari, reagivano violentemente, si confrontavano, sfidavano, mettevano alla prova, perché si sentivano «rimproverati» da una condotta irreprensibile.

Oggi non si ricorre quasi più alla persecuzione fisica, né a quella morale del disprezzo. La presenza del giusto è semplicemente ignorata. L’uomo della strada non avverte più alcun bisogno di fare proclami, né tantomeno di motivare i propri atteggiamenti, le proprie scelte (che, sovente, sono delle non-scelte). Nessuna scommessa sul fatto che Dio «presti soccorso» o no.

I grandi interrogativi sulla vita risultano totalmente assenti dai discorsi. Il giusto – o anche soltanto la persona normale – non ha bisogno di difendersi, giustificarsi, dal momento che è trascurato, ritenuto inoffensivo, nessuno si accorge di lui. I valori di cui si fa portatore non sono assolutamente presi in considerazione, non hanno più corso legale. Mitezza, affabilità, arrendevolezza? Tutte cose improponibili per il mondo moderno.

Sia ben chiaro. Non è che si rimpianga lo scontro frontale tra schieramenti opposti ben definiti, si abbia nostalgia dei bei tempi passati quando si menavano anche le mani. Ci mancherebbe altro.

Tuttavia si osa sperare che il credente torni a essere elemento di disturbo e il suo stile di vita appaia irritante per un certo tipo di società.

Insomma, tra persecuzione e omologazione, tra emarginazione e integrazione, tra disprezzo e indifferenza, c’è di mezzo lo scandalo della diversità.

Già. Ma esiste questa diversità? E dove la collochiamo?

Troppo facile cedere al vittimismo, recitare la giaculatoria del complotto ordito contro di noi (l’equivalente delle «insidie» tese al giusto di cui parla la Sapienza, solo che gli «agguati», nel mondo attuale, sarebbero quelli della stampa laicista e simili).

Troppo facile piatire perché siamo discriminati in base a pregiudizi che si perpetuano nei nostri confronti, e che non troverebbero alcun riscontro nella realtà.

Proviamo a invertire i termini del problema: ci combattono (o ci ignorano) perché siamo diversi, oppure perché vogliamo essere uguali a loro? Siamo di fronte a una crisi di rigetto – che sarebbe per noi un certificato di autenticità – o non piuttosto a un processo di assimilazione (con qualche difficoltà di… digestione, che però viene sempre appianata con gli opportuni rimedi)?

Prendiamo, come esempio, tre campi.

Il denaro. Dove sta la differenza tra noi e «gli empi»? Possiamo dire di essere immuni da questo contagio, di non avvertirne il fascino perverso, di non praticare un certo culto – neppur troppo segreto, anche se indossiamo i paramenti del servizio reso a Dio – verso l’idolo cui, a parole, attribuiamo fattezze demoniache?

L’etica sociale. L’onestà, la sincerità, la coerenza, la preoccupazione del bene comune, la trasparenza nell’amministrazione, la tolleranza, il rigore nei principi, l’assenza di compromessi, l’incorruttibilità, sono davvero le virtù che distinguono chi si professi cristiano da chi non ha il supporto della fede?

Il linguaggio. Il giusto si caratterizzava per il rifiuto di mettersi sullo stesso piano degli empi, per la scelta della debolezza per confondere la forza (1 Cor 1, 27), la serena sopportazione, la determinazione di vincere il male col bene (Rm 12, 21).

Oggi si tende a combattere ad armi pari. Alla polemica sprezzante si replica con la polemica ancora più sprezzante. Alla violenza verbale si risponde con altrettanta violenza. Alla faziosità si contrappone la faziosità, al pregiudizio il pregiudizio, al fanatismo il fanatismo.

Quanto c’è da fare per essere veramente “giusti” e per assomigliare al nostro Maestro di cui ci diciamo discepoli!

Foto: Gentian (Genzianella) o Fiore di Bach / dal cellulare

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