Contadini. Silone: «Al Sud non servono i pacchi-dono per la la Befana»
Un raro e attualissimo saggio del ’55 su «La narrativa e il sottosuolo meridionale»
(…) Ho già avuto modo di affermare in altra occasione che la riscoperta dell’eredità cristiana nella crisi sociale del tempo presente resta l’acquisto più importante della nostra coscienza negli ultimi anni. Questo riguarda, com’è ovvio, assieme al cittadino, lo scrittore.
Non so se adesso scandalizzerò qualcuno con lo spiegare che di questa fondamentale realtà religiosa e popolare del nostro Paese, non avevo percepito il minimo sentore nell’educazione precedentemente ricevuta a scuola e dai libri e che con essa mi scontrai per prima appunto nelle leghe dei contadini «rossi». La «tromba di Lazzaro», ad esempio, non è da considerare di sicuro una mia trovata arbitraria. Anche senza tener conto che quell’immagine mi fu suggerita da un fatto di cronaca di significato non dubbio, essa costituisce un tentativo di raffigurazione letteraria dell’eredità spirituale a cui ora ho accennato: cioè, un tentativo di rappresentazione del mito popolare cristiano dell’attesa del Regno, che si ritrova, a me pare, al centro delle aspirazioni più profonde e radicate dei contadini meridionali, e, osservando la storia, alla sorgente dei loro fermenti, delle loro rivolte, delle loro eresie, in tutte le epoche critiche, da Giocchino da Fiore, Francesco d’Assisi, Pietro da Morrone, fino a Cafiero, ai «fasci» dei contadini, ai pentecostali, agli anarchici di oggi. È una di quelle che Chesterton ha pittorescamente chiamate le «verità pazze», le verità transfughe: una verità, in altri termini, d’indubbia origine evangelica, che, ove e quando tra i credenti si sente negletta o dimenticata, non si dà pace e si rifugia altrove.
Ma, ora mi chiedo, come spiegare un’affermazione così perentoria, in cui è implicita anche una valutazione di moti sociali in atto, senza destare il sospetto d’una infatuazione politica e ideologica? E come renderla verosimile e degna d’attenzione a chi non abbia conosciuto, per esperienza personale e in congiunture adeguate, l’incredibile riserva d’energie che, in contrasto con la loro psicologia quotidiana, impastata, il più sovente, di superstizioni naturalistiche, di diffidenze, di scetticismo, di meschinità, di servilismo, si nasconde in fondo all’anima dei contadini poveri del Mezzogiorno? Non mi riferisco, sia chiaro, ai trasporti subitanei di cui talvolta, per suggestione d’abili istrioni, questi contadini sono preda e vittime; ma a una precisa facoltà e dimensione dell’anima, a qualcosa di permanente e fondamentale della sua intima struttura, quale si è storicamente conformata in un migliaio di anni, e che di solito rimane nascosto e negletto e si rivela bruscamente nelle situazioni di crisi, col rovesciamento completo della psicologia abituale e il rifiuto del sistema dei valori stabiliti. Non c’è dubbio che esso sia l’elemento più antico, più genuino, più diretto del fondo cristiano meridionale: fu esso che nel Mezzogiorno animò il grande moto francescano e le sue molteplici sètte (la sola rivoluzione contadina che abbia avuta l’Italia); ed esso che alimenta tuttavia la speranza libertaria e la congiunta fede messianica. Il Mezzogiorno d’Italia, sotto questo aspetto, somiglia solo a qualche regione della Spagna e della Russia. Ed è una sciocchezza attribuire questa peculiarità spirituale a un naturale potere allucinatorio della miseria, se tante altre contrade, anche più derelitte, l’ignorano.
All’esperienza personale di essa io arrivai attraverso le stesse fortunose circostanze che all’età di diciassette anni, durante la prima guerra mondiale, mi condussero a capeggiare alcune leghe «rosse» di contadini abruzzesi e, dieci anni più tardi, nel movimento clandestino comunista. Fu quella una conoscenza, forse precoce, di molte asprezze e angosce dell’esistenza, ma anche delle sue imprevedibili risorse. E se l’incontro ebbe conseguenze tanto durevoli, dovett’essere perché tra quei contadini trovai me stesso.
Riguardo all’immagine del mondo ricevuta a scuola e dalla lettura dei libri, era il rovescio della medaglia: la casa guardata dal cortile. Dunque, un avvenimento dell’ordine della conoscenza oltre che degli affetti. L’esistenza vi acquistava una prospettiva nuova, non banale. Gli operai e i contadini poveri con i quali allora mi trovai coinvolto non erano certamente individui straordinari; eccezionali erano però le circostanze e l’ingranaggio nel quale ci trovavamo presi. Molti di essi, messi alla prova, si comportarono onestamente, accettarono di andare allo sbaraglio.
Perché? Negli operai e, in genere, nei lavoratori settentrionali, mi sembrava evidente l’efficacia dell’educazione politica socialista, diventata esigenza e costume di libertà, mentre la forza di resistenza dei contadini meridionali mi appariva sostanzialmente diversa. Estranei alla tradizione risorgimentale, disgustati dal cattivo esempio del trasformismo dei politicanti delle loro province, e scettici verso tutte le forme politiche, anche democratiche, la loro coerenza rivoluzionaria era priva di ogni illusione utilitaria e aveva un fondo essenzialmente religioso, anche quando essi si dichiaravano atei. Era una fedeltà estrema all’intuizione d’un mondo radicalmente diverso da quello storico, immagine che gli uomini portano racchiusa nel cuore e che non potrà fallire finché qualcuno gli resterà fedele. In essi, in questi uomini del nostro tempo «schedati» e controllati a vista, non era difficile riconoscere gli stessi tipi che nel Medioevo, per la stessa fede, andavano nei conventi.
Che senso ha dunque il parlare di tradizione e realismo in generale, quasi che fossero termini esclusivi? In una contrada antica e scombinata come il nostro Mezzogiorno, ogni uomo vivo ha i suoi antenati e si dibatte in una sua realtà. Mi pare d’aver dimostrato che la più illustre delle tradizioni, dalle nostre parti, sia proprio quella degli anarchici, che, per definizione, sono antitradizionalisti. Il vero scrittore, poi, non è mai lui stesso che sceglie la sua realtà, essendone piuttosto scelto, e il criterio più appropriato di giudizio sarebbe perciò quello di una verifica della sua coerenza. Resterebbe da vedere in che modo lo scrittore se la sbrighi davanti ai fogli di carta bianca.
In questo, però, io temo di non poter essere d’alcun aiuto a quei critici che cercano l’origine dei libri nei libri antecedenti. Vi sono dei libri per i quali la ricerca dell’antecedente conduce alla persona dell’autore. In tal caso, come lui si sia formato, se è un uomo vivo, egli stesso, compiutamente, forse non lo sa, e ne può parlare solo per congetture. Così è inevitabile che si ritrovino nella concezione dei miei scritti, tracce di una certa educazione cristiana e di una certa critica socialista del mondo moderno, poiché esse fanno parte essenziale della mia forma mentale. Ma un esame più attento degli stessi scritti può stabilire che l’esperienza religiosa e quella sociale hanno lasciato un’impronta notevole anche nei modi dell’espressione e dell’invenzione.
A dir vero, le premesse di una conciliabilità artistica dell’ispirazione cristiana e di quella socialista, in una narrazione di tipo realista, mi sono apparse sempre intellettualmente plausibili, poiché cristianesimo e socialismo sono entrambi visioni drammatiche dell’esistenza, visioni dualistiche. Per entrambi la realtà del mondo esterno è fuori discussione, e il solipsismo idealistico è bandito. Vedete Fontamara: la tensione interna vi poggia sul netto distacco tra la coscienza dei suoi personaggi contadini e lo sviluppo «oggettivo» degli avvenimenti.
La catastrofe vi arriva inaspettata. Ma, per il resto, non ho difficoltà ad ammettere i limiti della mia premeditazione. «Si è accorto lei», mi ha chiesto per lettera la scrittrice svizzera Aline Valangin, «che le situazioni principali di Vino e pane e di Seme sotto la neve riproducono invariabilmente delle situazioni liturgiche? Il Presepio nella stalla (Infante), la Fuga, la Cena, il tradimento, il sacrificio…».
L’osservazione mi ha sorpreso e, in parte, convinto, rendendomi cosciente di parecchie altre cose. La liturgia? Ecco un antecedente al quale un critico non può pensare.
Ho letto Verga in esilio, solo dopo aver scritto Fontamara; e sono stato per la prima volta a teatro all’età di diciassette anni, venendo a Roma; ma il mio paese, che prima del terremoto contava circa settemila abitanti in maggioranza contadini, era sede vescovile, aveva una curia, un seminario, sette chiese con una cattedrale (una sproporzione reperibile solo nel Mezzogiorno). In un ambiente simile, le celebrazioni liturgiche che si svolgevano nella cattedrale, i pontificali, i vespri, gli uffizi solenni, acquistavano un fascino poetico unico e altrove inimmaginabile, offrendo le sole espressioni di vera arte localmente accessibili, la coreografia, la musica, il canto gregoriano, l’eloquenza, in funzione del mistero sacro al quale il fedele partecipava assieme ai sacerdoti. Ancor adesso l’opera d’arte che più mi tocca è la «Passione secondo Matteo» di Bach.
(…) I problemi attuali di fondo della narrativa meridionale sono, sul piano dell’arte, gli stessi della vita personale e sociale nel Sud. A considerare spassionatamente i risultati già acquisiti, mi pare che sia per lo meno prematuro scambiarci congratulazioni e complimenti. Il nostro orgoglio è maggiore. I soli libri che un viaggiatore ha trovato in casa d’un artigiano della Calabria erano due volumi di Tolstoi, e se n’è stupito. Eppure non è un fatto nuovo, e merita di essere rimeditato a nostra confusione. Esso vuol dire che la nostra narrativa è ancora in ritardo rispetto a quella categoria particolare di lettori la cui conquista dovrebbe costituire la più alta ambizione d’uno scrittore.
Il Sud è ora in movimento, per congiunture e cause che i meridionalisti storici non avevano previsto, ed è probabile che non si fermerà così presto. Comunque è una situazione che richiede una nuova messa a punto e, per un certo numero di anni, da inventariare periodicamente. Una nuova classe dirigente vi è in formazione, scaturita dalla piccola e media proprietà terriera e da professionisti e tecnici provenienti dalla stessa. Il problema del rinnovamento politico del Mezzogiorno impostato da Guido Dorso si sta per ripresentare su altre basi. Egli auspicava la rottura tra la borghesia umanistica e la borghesia terriera, e l’alleanza della prima con le masse contadine.
Ben presto la borghesia umanistica di vecchio stile e la borghesia terriera si troveranno respinte ai margini della vita meridionale, e già si pone il problema delle relazioni della nuova classe dirigente in fieri con le categorie più diseredate dei lavoratori della terra.
Ma portare avanti il nostro Mezzogiorno è altra impresa che colonizzare un paese nato ieri, dove possono bastare degli ingegneri e degli assistenti sociali. Nel nostro Sud nessun progresso può attecchire e durare manovrato dall’alto, all’insaputa e in assenza degli interessati, senza mettere in moto le energie nascoste e senza il loro entusiasmo; nessun progresso vi è concepibile che non sia progresso dall’interno, autoriscatto. Insomma non è questione di pacchi-dono per la Befana. E forse sarebbe utile che gli scrittori meridionali si dessero la pena di spiegare questo agli ingegneri e agronomi, se non vogliono far figura di turisti sulla propria terra. «Andiamo incontro al tempo, allorché esso richiede di noi».
Ma la funzione dello scrittore non si esaurisce nel dovere civico. Gli scrittori non possono diventare funzionari statali o parastatali: essi appartengono all’uomo e alla società e non alle istituzioni. Vi è un’inquietudine universalmente umana, ma anche nel Mezzogiorno pare a casa sua, (proprio quella che l’artigiano nutre leggendo Tolstoi), la quale certamente non si placherà neppure con la desiderabile e desiderata, ahinoi ancora assai lontana, estinzione della miseria. Il fondo utopistico di un certo tipo d’uomo meridionale può forse sembrare inutile sequestro di energie ai segretari federali e agli agenti delle imposte, ma è certamente di un’importanza enorme (forse la sola cosa importante) al cospetto di Dio. Esso rappresenta una ricchezza più importante del petrolio scoperto a Ragusa e a Vallecupa. Ora, poiché i preti hanno già troppo da fare per le elezioni, le cooperative, i consorzi, ecc., ecc., non mi sembra disdicevole esortare qualche giovane scrittore ad occuparsene.
(3. Fine)
Ignazio Silone, «Al Sud non servono i pacchi-dono per la Befana. Un raro e attualissimo saggio del ’55 su “La narrativa e il sottosuolo meridionale», in “Avvenire”, domenica 27 agosto 1978, p. 9.
Foto: Ignazio Silone / biografieonline.it